Il folk balcanico ? Chissà che palle, con quelle fanfare di tube e tromboni. La tradizione tzigana? Che se l'ascoltino nei campi nomadi. I cori bulgari? Buoni per farci due risate con Elio e le Storie Tese (ma forse i loro cori sono rumeni). Goran Bregovic? Il solito furbastro che approfitta delle disgrazie della sua terra per diventare famoso... eccetera.
Armato di questi pregiudizi (piuttosto fessi, lo ammetto, ma d'altronde se ci sono in giro dei pregiudizi intelligenti qualcuno me li segnali) mi feci prestare questo disco quasi controvoglia, spinto solo da vaga curiosità. Il giorno dopo supplicavo già l'amico donatore di farmene subito una copia. Eppure come classicomane sapevo che l'Est europeo era un enorme serbatoio di melodie popolari, da cui aveva attinto già Brahms nell'Ottocento, per non dire del maniaco Bartok, che girava la pensiola balcanica per registrare quintali di materiale con i mezzi dell'epoca. Ma non immaginavo che nelle condizioni attuali quei disgraziatissimi paesi potessero esprimere una specie di Peter Gabriel slavo, un musicista di ampie vedute in grado di rielaborare con sapienti tocchi di elettronica i canti del suo popolo, facendoli anche incontrare felicemente con le più lontane musiche del mondo.

Goran Bregovic è nato a Sarajevo da padre serbo e madre croata: sembra l'invenzione di un imbonitore per vendere di più, ma è solo un caso. Il sottotitolo di questa bellissima raccolta minimizza: "Musica per matrimoni e funerali". In realtà spesso si tratta di ottima musica da film, quelli dell'amico Emir Kusturica (coautore di alcuni brani) che ci hanno rivelato qualcosa su questi popoli, così vicini e al tempo stesso così misteriosi.
Dunque, cominciamo dalle temute fanfare balcaniche: non solo la loro presenza in "Ederlezi" è marginale, ma là dove appaiono ("Mesecina/Moonlight", "Cajesukarije Cocek") tube, tromboni e trombe assecondano con agilità impensabile ritmi al limite del frenetico, dando al tutto un tono divertente e scoppiettante. I cori bulgari, maestosi ma tutt'altro che pesanti, hanno ben altra importanza. Entrano nei momenti più toccanti delle scene, regalando sonorità da brivido, da antica musica sacra: ne sono preziosi esempi due episodi in crescendo come "La nuit" ed "Ederlezi". Ma all'occorrenza sanno dare un ulteriore tocco di nero ad un rock perentorio e ispirato come "TV Screen", già reso abbastanza oscuro e spettrale dal canto bowieggiante di un Iggy Pop in stato di grazia. "7/8 & 11/8" è magia corale e strumentale, specie dopo l'entrata di una fragorosa batteria, che insieme agli usuali cori sposta il tono decisamente sul tragico. Altri bellissimi strumentali: "Death", diabolica e sulfurea danza macabra, tutt'altro che esorcizzante, e "Dreams", idillio paradisiaco per voce d'angelo solista e coro.
Le contaminazioni sono varie e ben riuscite. La malinconia slava va a nozze con la saudade afro-portoghese di Cesaria Evora in "Ausencia", ma anche con l'eterno lamento mediorientale, la sublime nenia dell'israeliana Ofra Haza in "Elo Hi", e perfino con la sensualità del tango nel lento e intrigante "Underground Tango". E l'America, che dalle parti di Bregovic ha portato un po' di libertà, molte mine e parecchio uranio impoverito, come è vista ? Bè, senza rancore, non molto diversa che da qua: "American Dreamers" è un country parlato, con Johnny Depp in veste di narratore, "Man From Reno" è cantata con voce da crooner da Scott Walker, e nessuno la immaginerebbe in un disco di musica slava.
Ma ormai, arrivati verso la fine del disco, non ci si stupisce più della versatilità di Bregovic, anzi ci si aspetta che da un momento all'altro ci dia prova di destreggiarsi egregiamente anche con il reggae, i sitar indiani o le percussioni africane, e che finora non l'abbia fatto solamente perché gli è mancata l'occasione.

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