Il nome GPS, certo ben poco ficcante ed efficace per una band, è acronimo di Govan (chitarrista), Payne (bassista e cantante) e Schellen (batterista). E chi sarebbero? Tre quarti dell’equipaggio con cui gli Asia erano transitati nel nuovo millennio insieme al superstite membro originale Geoff Downes, buttati poi tutti fuori a metà della decade scorsa su iniziativa del management della casa discografica, per consentire il rientro fra i ranghi, in blocco, degli altri membri fondatori John Wetton, Steve Howe e Carl Palmer, nell’obiettivo di tentare l’ennesimo rilancio commerciale per il sodalizio.
E allora chi è, in copertina, quella specie di John Lennon che di bianco vestito si guarda la tele dal suo Paradiso? Uno del gruppo? No, quello è John Kalodner.
Ah beh, e chi diavolo è John Kalodner? Attore? Modello? Un parente di qualcuno di loro? John Kalodner è un impresario, un procuratore, ormai da tempo in pensione ma uno dei più importanti in America nei decenni passati. Ha raccomandato alle multinazionali discografiche per cui lavorava (Atlantic e Geffen) un sacco di gente, e fatto la loro fortuna. Un tizio talmente autorevole che in molti dischi degli anni novanta, nelle note sul libretto dove si citano nomi, cognomi e ruoli, compare spesso nel ruolo di …se stesso! Scritto proprio così: John Kalodner: John Kalodner.
La musica dei GPS è inevitabilmente vicinissima a quella degli Asia, vale a dire progressive rock molto pop, ben più tendente al canzonettaro che allo sperimentale. Questo soprattutto a causa del canto pieno (zeppo) d’enfasi del frontman John Payne e del suo precipuo modo di creare le melodie vocali, caratteristiche che avevano tenuto più o meno dignitosamente a galla la carriera degli Asia negli anni novanta e ad inizio millennio. Le differenze vengono dai solisti: il tastierista asiatico Ryo Okumoto (in prestito dagli Spock’s Beard) è molto più virtuoso e trafficato del predecessore Downes, mentre il riccioluto chitarrista Guthrie Govan è tremendamente più tecnico, imprevedibile, ficcante ed eclettico del raggrinzito Steve Howe.
Govan è musicista fuoriclasse: su questo disco non fa moltissimo, però quanto basta per poter affermare che le cose interessanti vengano quasi solo da lui… Certo non dal vocione magniloquente del suo bassista, fra l’altro non molto in forma (le corde vocali “grattano” parecchio nell’occasione, ed in maniera assai fastidiosa), dalle canzoni che sono quasi tutte abbastanza di maniera, dal prodigo darsi da fare di Okumoto che è in gambissima ma non è Jon Lord o tanto meno Kerry Minnear.
GPS non esiste più e questo disco deve essere perciò incasellato fra gli una tantum nella storia del progressive più commerciale e lineare: Payne all’indomani di questa pubblicazione ha quasi subito optato per un accordo coi vecchi compagni, a valle del quale ed ancora adesso gira per i palchi coi suoi “Asia featuring John Payne”, non comprendenti alcuno dei suoi accompagnatori in questo disco.
Piuttosto che stare dietro ancora ad Asia 1 e Asia 2 featuring Payne, suggerisco al presente di seguire la carriera del mio beniamino Govan, attualmente impegnato con batterista e bassista quasi alla sua stratosferica altezza in un trio strumentale fusion molto brillante, denominato Aristocrats.
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