[Premessa: questo lungo scritto non ha la pretesa di essere una recensione ma di raccontare il mio percorso di apprendimento di Miyazaki attraverso i film e le circostanze che nel corso degli anni mi hanno insegnato ad apprezzarlo.]

Non avevo più notizie di Emma da quindici anni, quando le strane evenienze della vita ci avevano separati in giovanissima età, portandola in uno sconosciuto posticino del Nord Italia che agli occhi di un bambino delle elementari poteva apparire qualcosa di irraggiungibile anche attraverso i mezzi più disparati, una sorta di pietra tombale apposta definitivamente sulle velleità di un qualsiasi ritrovo in un futuro prossimo o remoto, giacché in quegli anni della prima metà dei '90 l'unico mezzo per non perdersi di vista era la posta cartacea. Ma per carità, ricorrere a tale espediente sarebbe equivalso ad una dichiarazione di intenti da quasi fidanzamento e la nostra età certo non poteva dare adito a cotali sciocchezze, così da ragazzini che facevano finta di appartenere al serioso mondo degli adulti, decidemmo in tacito accordo di perderci di vista e dimenticarci.

Poi si sa, il nuovo millennio ha portato con sé quella apocalittica rivoluzione dei social, e qualche mese dopo l'iscrizione all'ennesimo sito per incontri e networking, decido una sera di cercare il suo nome per trovare sue inaspettate notizie. Nome e cognome sono stampigliati nella mia mente ormai da anni e fa certo un bell'effetto vedere che prendono forma nel motore di ricerca associandosi ad un solo profilo disponibile: la cosa non mi sorprende, giacché il suo nome completo non è certo tra i più diffusi e trovare già qualche riferimento sul social mi fa pensare che sia davvero lei e non un caso di improbabile omonimia. Poi c'è anche una foto. Scruto con attenzione ma la dimensione è veramente infelice; tuttavia si tratta di un primo piano in cui riesco a distinguere il sembiante. È un bianco e nero quasi artistico che ha per soggetto un viso illuminato di un nitore quasi irreale, lo sguardo verso l'alto e un'accenno di matita scura sulla guancia, simile ad un neo posticcio o alla lacrima nera che campeggia sul volto di Pierrot. A naso, potrebbe trattarsi di un trucco teatrale. Non ci sono elementi che possano facilmente ricondurmi alle immagini della giovinezza che conservo nel memoriale, ma non ho dubbi o tentennamenti di sorta nell'indovinare l'identità di quella misteriosa immagine: è lei.

Le scrivo due righe di circostanza per capire se si ricorda di me (mi stupirei del contrario) e se ha voglia di spendere qualche parola per ricordare i vecchi tempi. Messaggio inviato in men che non si dica: non rimane altro che attendere una sua risposta. Che arriva una settimana dopo, quasi allo spegnimento del lumicino della speranza che lei avesse voglia di riallacciare un vecchio filo ormai sommerso dalla polvere di tanti anni di silenzio. Sì, lei si ricorda di me. Anzi, quasi inaspettatamente per la spontaneità non richiesta, entra subito nel vivo del discorso, confessando come prima cosa di essersi sentita sperduta nel momento in cui seppe del trasferimento imminente che la aspettava ai tempi della sua fanciullezza, per quella inaccettabile consapevolezza che si sarebbe interrotto il rapporto privilegiato che si era instaurato con me grazie ai lunghi pomeriggi condivisi nelle rispettive case dei nonni tra giochi di ruolo e problemi di matematica. In tutta risposta le chiedo il numero di telefono e da quel momento iniziano lunghissime conversazioni serali tutte tese a ricostruire il passato vissuto e non vissuto e ad inquadrare passioni e interessi dei giorni attuali. Lei fa la spola tra Roma e Parigi per coltivare la grande passione del teatro (ecco spiegata la natura della foto tratta da un trucco di scena) con l'intenzione di farla diventare al contempo la sua occupazione lavorativa, professa uno stile di vita votato ad un'ostinata singletudine, viaggia sempre in auto per paura di prendere l'aereo, ama ballare la pizzica, ascolta tonnellate di dark wave e coltiva una sfrenata passione per i film di Miyazaki. L'unica cosa che condivido con lei è la condizione di scapolo, mentre tutto il resto crea interessanti distanze che mi sento di voler colmare ricambiando con tutto quello che amo e che lei conosce poco: Ia musica elettronica, i romanzi di Calvino, i viaggi per il mondo a cercar vinili e i film di Orson Welles.

Giorno dopo giorno, le lunghe chiacchierate diventano il diversivo per ricostruire le nostre reciproche parvenze arricchendole di elementi sempre più peculiari e interessanti: io scandaglio le sue passioni e lei fa lo stesso con le mie, proponendo lei a me quella lettura o io a lei quell'ascolto, finché il quadro non è completo. L'ultimo tassello su cui indugio è Hayao Miyazaki. Non so nulla dell'animazione giapponese e per me sino ad allora nulla poteva esistere se non il monopolio Disney intervallato qua e là da qualche sortita della DreamWorks e degli Aardman Studios per Wallace e Gromit. Scopro quindi che c'è un universo parallelo che trae linfa dallo Studio Ghibli fondato da Miyazaki nel 1985 per dar vita ad un'importante serie di film di animazione giapponesi che annoverano tra i registi lo stesso Miyazaki e il cofondatore Isao Takahata. Emma non ha alcuna esitazione nel decantarmi la bellezza di quello che per lei è il capolavoro indiscusso del regista giapponese, "Il castello errante di Howl", spronandomi a guardarlo per poter apprezzare l'incanto della poetica di Miyazaki. Ne cerco subito la sinossi per capire cosa si tratta: la storia ha per protagonista la giovane Sophie che vittima di un maleficio che la trasforma in una inerme vecchina per effetto dell'incantesimo della malvagia Strega delle Lande, incappa quasi fatalmente nel curioso castello semovente dell'enigmatico mago Howl che nasconde un passato che lo ha reso vittima a sua volta di un altro misterioso incantesimo. Nicchio un po' per via della mia proverbiale presunzione, convinto che sia pressoché impossibile che a un cineasta dilettante come me sia interamente sfuggita una teoria di presunti capolavori dell'animazione e che soprattutto Miyazaki e il cinema giapponese possano essere in grado di scalfire le mie ostinate convinzioni sulla bontà della tradizionale produzione cinematografica che ho sempre seguito e amato. Le credo con riserva e quasi diventa una sfida per me sottopormi alla visione del "Castello", pur con la vivida curiosità di vedere se questa amica ritrovata può avermi insegnato qualcosa di nuovo a cui appassionarmi.

Riesco a trovare il film su un P2P e decido in anticipo la sera in cui potermelo gustare attentamente, sicuro della mancanza di qualsiasi distrazione che possa limitare l'acribia della mia analisi. La sacralità del momento deve essere pari ad un rito di iniziazione. Arrivata la sera dell'attesa visione, porte e finestre vengono serrate ed è così che può iniziare la proiezione. Lo colgo tutto d'un fiato, senza alcuna pausa nonostante le due ore piene, e ammetto alla fine di averlo seguito senza tentennamenti, di essermi fatto anche avvincere dalla non semplice trama senza mostrare segni di cedimento. Ma non mento a me stesso: non mi è piaciuto. Non si tratta di una sensazione di insoddisfazione a fronte di una storia inefficace o di una sceneggiatura scadente: il problema è che il linguaggio del film mi è completamente ignoto e non utilizza gli stilemi confortevoli dell'animazione occidentale. Quando guardo un film d'animazione, ho bisogno di buoni e cattivi, ma nel "Castello" dove si susseguono tanti personaggi del mondo umano e animale, i cattivi diventano buoni e i buoni non sono mai completamente buoni, cosicché non riesco ad affezionarmi realmente a nessuno dei caratteri e non posso esperire la catarsi nel vedere il cattivo sconfitto, annientato. Ho bisogno di sorridere nel godermi principalmente una storia per ragazzi, giacché mi aspetto che l'animazione si rivolga sempre, pur con le sue stratificazioni semantiche, all'attenzione dei più giovani, ma nel "Castello" anche i bambini giocano a comportarsi da grandi e ogni refolo di presunta innocenza viene spazzato via da una matura seriosità che non suscita il più timido dei sorrisi. Infine, sì, io ho bisogno di vedere il principe che bacia la principessa. Che lo faccia con o senza lingua, con un bacio colombino o alla francese, ma che ci sia almeno un bel consesso di labbra incollate per qualche secondo per celebrare il solito vecchio logoro trionfo dell'amore alla fine di una lunga serie di peripezie ordite dal cattivo di turno. Chiaramente nel "Castello" non c'è nulla di così sfacciato e alle celebrazioni amorose investite da lingue reciprocamente umettate si sostituiscono rari baci innocenti di natura timida e amichevole. Sì, quella visione, per la quale nutrivo una minima speranza di poter essere sorpreso, si è rivelata un naufragio ed ha scavato un solco tra me ed Emma. La delusione è maggiore della presunzione di aver avuto ragione.

Non ho remore nel confessarle le mie riserve e ho l'impressione sin da subito che le mie parole di disapprovazione la facciano rimanere male: se ne fa una ragione, ma in realtà non è tanto quel momento di disillusione a far scricchiolare la nostra relazione, ma un meccanismo solo a tratti comprensibile per il quale da qualche giorno abbiamo diradato le telefonate e limitato i rapporti a qualche veloce messaggio sul cellulare. Si è rotto qualcosa. So di certo che lei ha qualche noia familiare e forse qualche conoscenza che vorrebbe scrollarsi di dosso, ma non ho tutti gli elementi per capire cosa non vada. Di certo quei due mesi vissuti, seppure a distanza, tra lunghe telefonate e confessioni serali, sono ineluttabilmente finiti e sembra che ci stiamo avviando ad un incomprensibile e indesiderato esizio. È chiaro che di fronte a tutto ciò, proprio per effetto della delusione cagionata da Miyazaki in grado di mettere a nudo la distanza tra i nostri diversi modi di "sentire" e per una stilla di ostinato orgoglio che mi attanaglia ormai da anni, non faccio nulla per fermare questa precipitosa discesa verso il baratro di una nuova dimenticanza. Anzi, un giorno scappa una parola di troppo da parte mia durante una conversazione in chat e il gioco è fatto: reagisce piccata ad un giudizio affrettato e mi liquida in pochi secondi fingendo, per suo speculare orgoglio, di avere un impegno che la costringe a salutarmi in fretta e furia. Dicembre 2008. Da allora non ho più sue notizie.

Le circostanze della vita sono piuttosto strane, perché in breve accadranno molti avvenimenti che mi faranno dimenticare in fretta questo succinto ma piacevole revival dell'infanzia, portandomi su altri lidi destinati a dare una direzione ben precisa al mio futuro. Per mesi quell'esperienza rimane relegata negli anfratti più remoti della memoria, finché un giorno noto casualmente sulla bacheca di un multisala la locandina di "Porco Rosso", uno dei primi lungometraggi di Miyazaki riproposto in Italia ben diciotto anni dopo la data di uscita in Giappone, qualcosa di cui avevo già letto nella mia opera di indottrinamento sul regista giapponese e che non avevo approfondito per via della deludente visione del "Castello" consigliatomi da Emma. E già, a quel punto non possono che tornare nella mia mente le chiacchierate di due anni prima e quell'animata intenzione di capire come una persona potesse transitare dall'infanzia all'età da matrimonio mantenendo un alone di imperdibile interesse. Chiaramente la mia decisione è quella di dare una nuova chance a Miyazaki e non indugio a procurarmi il film per potermelo gustare, allora come un anno prima con il "Castello", in una tranquilla serata davanti alla tv. La storia è quella dell'italiano Marco Pagot, un esperto aviatore militare che in seguito ad un incidente in un combattimento aereo sull'Adriatico durante la prima guerra mondiale in cui perdono la vita tutti i suoi compagni, ha un'esperienza di premorte dalla quale si sveglia misteriosamente tramutato in un maiale antropomorfo. Marco, ribattezzato Porco Rosso per via del suo aspetto e del suo idrovolante color cremisi, si chiude in se stesso abbandonando la vita mondana e l'avvenente fidanzata Gina per dedicarsi, a guerra finita, alla carriera di cacciatore di taglie dei Pirati Dell'Aria. Questi ultimi, dopo l'ennesima umiliazione subita per mano di Porco, decidono di affidarsi ad un altro asso dell'aviazione, l'americano Donald Curtis, per annientare il Barone Rosso italiano e poter finalmente scorrazzare indisturbati per i cieli sopra l'Adriatico. Curtis, desideroso al contempo di attirare l'interesse della bella chanteuse Gina, ingaggia un duello con Porco senza esclusione di colpi, facendo precipitare il suo idrovolante e credendo quindi che Marco sia morto annegato nell'Adriatico. In realtà quest'ultimo è riuscito a sopravvivere planando su un'isola dalla fitta vegetazione ove è riuscito a nascondere la carcassa del suo idrovolante danneggiato dai colpi dell'americano. Dopo aver rassicurato Gina sul suo stato di salute, Porco Rosso parte per Milano intento a far riparare il suo velivolo dalla ditta Piccolo S.p.A. ed è lì che fa la conoscenza della giovane Fio, nipote del signor Piccolo, la quale si propone come capo progetto della ristrutturazione dell'idrovolante e riesce a salpare con Marco con la scusa di dover collaudare le modifiche appena effettuate. Da quel momento si svilupperanno le varie peripezie che porteranno Porco e Curtis ad un nuovo duello per i cieli dell'Adriatico.

Se la mia sinossi si ferma qui non è certo perché indugio nella visione del resto del film, ma per lasciare ai lettori il gusto di apprezzare l'evoluzione della storia senza che ne presagisca il finale, per sciogliere quei tanti nodi che riguardano la storia d'amore di Porco Rosso e Gina, la sorte del nuovo duello con Curtis, l'esito del maleficio che ha trasformato Marco in un maiale. Non indugio nella visione perché i novanta minuti del film scorrono leggeri e accendono in me l'inatteso entusiasmo di aver assistito ad un piccolo capolavoro dell'animazione. È, a distanza di due anni dalla deludente esperienza del "Castello errante di Howl", una folgorante sorpresa a cui mai avrei immaginato di assistere, al cospetto di questo burbero aviatore maiale a cui non si può non voler bene per la malevola sorte che gli ha donato questo aspetto grottesco e beffardo: lo sa bene Gina, nonostante le sue animalesche sembianze, innamorata del suo cipiglio inattaccabile e della poetica di eroe maledetto inviso all'imperante regime fascista del ventennio italiano (celebre la battuta "Piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale" da lui pronunciata all'amico camerata Ferrarin). Ma ad incantare ancora di più è la diciassettenne Fio, vera e propria coprotagonista del film, con la sua decisa ostinazione che non lascia intendere tentennamenti ma che in realtà deve fare i conti col suo amore innocente per Porco, verso cui sente un'attrazione che sa umilmente di dover reprimere per la giovane e inesperta età che lo divide dal suo amato. La sua fragilità è tutta nella scena in cui, dopo aver redarguito a gran voce l'intera pletora dei Pirati dell'Aria sulla loro vigliaccheria nell'aver voluto sconfiggere Porco affidandosi allo straniero Curtis, rimasta sola con Marco, confessa di tremare per la profonda paura provata appena prima e si tuffa nel mare per scaricare la forte tensione. Una giovane eroina squisitamente miyazakiana capace con la sua determinazione di imprimere la giusta direzione al corso degli eventi. Fio mi ha conquistato, anche per quel candido bacio che riesce a strappare a Porco in segno di docile devozione, un bacio a fior di labbra che non ha bisogno di principesse e cavalieri, ma che suona come un magnifico sigillo di redenzione e che mi riappacifica definitivamente con Miyazaki, riuscendo inoltre a farmi comprendere meglio alcuni dei temi che erano in nuce nel tanto ambiguo "Castello". Soprattutto, mi fa capire che l'esigenza di avere quelle sfumature tra buoni e cattivi è qualcosa che parte dall'osservazione del mondo reale, ove non è detto che lo spaccone Donald Curtis non sappia comportarsi da gentiluomo con Fio e il camerata Ferrarin, pur vedendo nell'amico Marco la figura di un dissidente, non esiti ad aiutarlo a scampare alle offensive dell'aviazione fascista. Alla luce di tutto ciò, recedo certo dalle mie convinzioni manichee bisognose di operare una cesura netta tra buoni e cattivi e comprendo quanto di buono ci fosse già nel "Castello errante di Howl" e le radicate e sincere ragioni dell'entusiasmo di Emma.

Da quel momento passo in rassegna tutta la produzione di Miyazaki, da "Il mio vicino Totoro" a "Principessa Mononoke", da "La città incantata" a "Ponyo sulla scogliera". Ogni proiezione è una nuova scoperta che devo certo ad Emma e a quel po' di ostinatezza che mi ha portato a riesplorare l'universo miyazakiano dando una nuova chance con la magnifica folgorazione di Porco Rosso.

Sono passati più di dieci anni da quell'ultimo contatto e talvolta penso che mi piacerebbe confessare ad Emma che su quella passione aveva profondamente ragione ed è stata in grado di lasciarmi in dote un eredità che difficilmente avrei scoperto da solo. Penso che mi piacerebbe parlare con lei di quella splendida scena in cui Marco vede fluttuare su di sé i velivoli degli amici appena scomparsi in un immenso cimitero di idrovolanti che danzano sulle nuvole. Penso che mi piacerebbe parlare del perché di quella abbrutente metamorfosi, probabilmente come effetto di un senso di colpa per essere stato l'unico uomo a sopravvivere alla guerra. Penso che mi piacerebbe parlare di Sophie, Fio e tutte le altre eroine miyazakiane che ho conosciuto nel tempo. Penso che mi piacerebbe parlare di come eravamo dieci anni prima.

Sì, penso che mi piacerebbe molto, un giorno.

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