Tra le tante idiozie (travestite da cose importanti) che flagellano la quotidianità c’è una cosa importante (di solito percepita come un’idiozia) che invece la nobilita: la divagazione.

Amo divagare. Amo farlo in tutte le declinazioni possibili e immaginabili.

Amo sedermi al bar con un amico e lasciare che le immagini, le idee, le riflessioni, le minchiate e le minchiate ancora più grosse formino un ammasso informe e inconcludente di vapori celebrali. Amo scrivere le mie paginette qui sul DeB dove, avvitandomi sul perno di una determinata opera, posso lasciarmi guidare dai neuroni che si avvicinano, si allontanano, zoppicano, cadono a terra e fanno le boccacce.

Più di tutto, amo divagare da solo. Nei miei pensieri.

E’ lì che spremo l’essenza più pura della divagazione. E’ lì che supero l’intralcio della trasmissione orale e/o della parola scritta. Lì, l’attività elettrica del cervello, produce una corrente alternata che ha il solo fine di alimentare sé stessa, produce tante bollicine che danno alla testa come un vino bianco frizzante.

La più grande invenzione che l’umanità dovrebbe darsi pena di ideare e costruire, sarebbe un aggeggio capace di annotare (in modo automatico) tutte queste oscillazioni senza direzione. Parlarne, scriverne o anche solo premere un tasto per registrarle produce solo una scialba trasposizione. Il cervello si predispone a tradurre sé stesso: alla fin fine è una sorta di menzogna.

Però ci sono autori e libri che hanno il potere di bypassare (o danno l’illusione di farlo) l’atto razionale della scrittura per restituirci la purezza del pensiero appena nato. Lo stream of consciousness di Joyce o della Woolf ? Quasi. La scrittura automatica dei surrealisti? Forse. Consideriamo Michaux e i suoi “Passaggi”.

Bizzarra figura questo Henri Michaux. Poeta, scrittore, saggista e pittore belga naturalizzato francese, ha attraversato il Novecento con una sorta di lucida alienazione che è stata la vera cifra delle sue opere. Gran viaggiatore ed esploratore, non lo è stato solo geograficamente: dal 1955 si è dedicato, con il piglio sistematico di uno scienziato, ad analizzare le trasformazioni che l’LSD e la mescalina avevano su di lui, sulla sua scrittura, sulla sua coscienza (“Conoscenza degli Abissi” è il risultato di queste indagini. Un saggio accurato ed esaustivo sull’ uso e sugli effetti degli stupefacenti al confronto del quale “I Paradisi Artificiali” di Baudelaire sembrano le ingenue considerazioni di un fattone di 16 anni).

Questi “Passaggi” (che coprono un periodo che va dal ’37 al ’63) sono quelli della sua mente che divaga sugli argomenti più disparati. Scritture brevi (a volte brevissime) in cui il nostro indugia su un avvenimento di cronaca, sul progresso tecnologico, sulla poesia, sulla pittura, sul ricordo di un viaggio, sull’atto di scrivere, sull’atto di vivere. Indugia, ma non si sofferma a lungo.

Pezzi che hanno sì il segno distintivo dell’incompletezza, del frammento e del momento, ma che hanno anche una precisione e una rigorosità tali che le parole coprono il lettore con l’armonia e la freschezza di lenzuola di cotone. Pagine dalla scrittura spuria che hanno il suono disarticolato e intermittente di strumenti musicali che cercano di accordarsi prima dell’inizio di un concerto. Prove d’orchestra di una sinfonia che non inizierà mai e in cui Michaux passa con disinvoltura da una sinapsi all’altra risultando puntiglioso (senza essere pedante), leggero (senza essere approssimativo), umorista (senza essere sboccato), visionario (senza essere allucinato).

Si potrebbe quasi dire che la scrittura di Michaux sia pervasa da una sorta di realismo surreale in cui molti ossimori confluiscono e sguazzano intorno ai pochi elementi usati per imbastire una riflessione.

E’ come se realizzasse l’impossibile incrocio tra altri due maestri dell’ossimoro: Apollinaire (con le sue fantasie concrete) e Valéry (con la sua matematica liricità). Impossibile, perché è difficile immaginare due autori più diversi di Apollinaire e Valéry.

Se con Apollinaire condivide il gusto per la battuta e l’attenzione per le trasformazioni della suo presente, in Michaux l’ilarità è sempre misurata, la contemporaneità è sempre declinata.

Di Valéry ha quella sorta di distacco, di analisi impersonale verso tutto ciò che lo circonda. Ma, mentre le instancabili elucubrazioni di Valéry cercano le segrete (e infinite) concatenazioni delle cose del mondo, in Michaux il creato si esaurisce molto spesso in due o tre pagine, nel singolo oggetto (o idea o ricordo) che pungola la sua mente in quel preciso momento e che dalla sua mente viene trasformato e traslato. Valéry è uno scienzato prestato alla poesia, Michaux è un poeta (profondamente poeta) sospinto da un incedere analitico.

Non solo, l’io narrante di Michaux (quell’io così poco incline all’azione fisica, quell’io che pare un apparecchio registrante dotato di un archivio inesauribile dove sono stipate tutte le variabili della vita) ha qualche grado di parentela con quello di Proust, ma con una differenza fondamentale. Proust cerca di estrarre dalla sua memoria, dal suo io-passato le risposte, le ragioni che giustifichino l’io-presente e il modo in cui questi si approccia alla realtà, Michaux invece investiga dentro di sé solo per il gusto di investigare. Pare non ricerchi nessun senso, o meglio, il senso è sempre relativo, transitorio, permeato da un’apparente passività e malinconica consapevolezza della sua fugacità.

Forse questi “Passaggi” sono lo “Spleen di Parigi” di Michaux (e non solo perché ogni pezzo, come nel capolavoro di Baudelaire, è indipendente dagli altri). Il dolore esistenziale, lo spleen che Baudelaire prova gironzolando per le strade della capitale francese, sembra in fondo provarlo anche Michaux nelle viuzze, negli anfratti, nei vicoli ciechi della sua mente. Eppure, a differenza di Baudelaire, la sua è una malinconia depurata da ogni auto-compiacimento e quasi da ogni pretesa artistica: un’asettica (e chirurgica) presa di coscienza dell’insensatezza della vita.

Ecco, io avrei finito.

Cianciare ho cianciato, argomentare ho argomentato (forse), divagare ho divagato. Però che differenza rispetto alle cose che avevo nella testa e che ho provato a mettere per iscritto! Insomma, attendo con ansia quella nuova invenzione. Non perché creda che così capirei meglio me stesso (né tantomeno il mondo che mi circonda), ma perché ho la sensazione che se potessi rileggere i miei pensieri appena nati mi farei delle matte risate.

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