L’abito non fa il monaco (al massimo il chierichetto).

E’ sempre bello rimanere sorpresi, soprattutto di questi tempi in cui si sa tutto di qualsiasi novità discografica già mesi prima che esca, o se va bene, un giorno dopo della reperibilità in rete (forse un po’ di calma farebbe bene, oramai tutti sentono dischi, ma sempre meno li “ascoltano”).

E’ bello quindi “reperire” un disco che, da quanto letto sulle riviste, sembra appena appena interessante, e scoprire un mezzo capolavoro. Eh sì, perché chiariamo subito cheNo Holier Temple è un disco ombroso e affascinante, godibile e per niente “esoterico” come mi è capitato di leggere.

Certo che se uno legge le note biografiche degli Hexvessel non viene molta voglia di correre ad ascoltarli: finlandesi, capitanati da un transfuga della Cornovaglia, Mat McNerney in arte Khvost, imparentati con la scena metal locale e fuori per una etichetta come la Svart. Pochi dubbi verrebbero su quello che suonano. Il 90% di noi punterebbe su una qualche variante metal pagana.
E invece no. O meglio, sul discorso paganesimo ci siamo, anche se sarebbe meglio definirlo animismo. Per quanto riguarda metal e affini, non ci siamo proprio. Gli Hexvessel sono tra le poche band che riescono a ricreare l’ambiente in cui suonano e vivono. Il loro è un folk “forestale” e decisamente psichedelico (si definiscono così nella loro pagina Facebook), che guarda tanto alla tradizione albionica dei ’70 (Spyrogira, in parte Fairport Convention, prevalentemente i mefistofelici Comus), quanto alle derive mistiche di David Tibet e dei suoi Current 93, rimanendo comunque, incontrovertibilmente finnici nelle atmosfere.

Un mezzo capolavoro, si diceva, in virtù di un eclettismo che permette a “No Holier Temple” di evitare molti clichè del genere tramite scelte strumentali poco usate, come la tromba dolente che spezza il cantato ieratico e forse troppo declamatorio (unico punto debole del gruppo a mio avviso) della bellissima “Woods To Conjure”. Oppure il duello fra chitarra fuzz, fisarmonica e mandolino su “A Letter In Birch Bark”, una ballata folk che sembra concepita fra Tampere, Positano e Belgrado, per capirsi. Stupisce il livello mediamente alto delle composizioni, da una “Sacred Marriage” impreziosita da caldo organo vintage e chitarra acida, passando per i due pezzi che sforano i 10 minuti. “His Portal Tomb”, l’unico brano ad alto tasso di elettricità, con andamento doom e flauto pagano, e “Unseen Sun”, lunga orazione al dio Sagan da loro adorato, con inquietanti archi a danzare intorno al fuoco. Fino alla chicca finale: una cover ultra acida di “Your Head Is Reeling”, poco conosciuto brano degli psichedelici bostoniani di fine ’60, Ultimate Spinach.

A mani basse, e senza alcun preavviso, personale disco dell’anno domini 2012.

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