Dopo aver fatto brillare l’ordigno caricato a schegge psichiche di “The washing line” Humpty Dumpty si dedica al silenzio della vita di tutti i giorni. Tre anni passano fra l’ultima anarco/registrazione su Fostex a quattro piste e l’installazione d’un multitraccia software per PC.
Nel frattempo molta acqua fluviale è trascorsa sotto il fragile ponte della percezione: Humpty si immerge nella meditazione e, a partire dall’analgesia psichedelica del Donovan di “Hurdy gurdy man” scivola sempre più in prossimità di Raga indiano, Taoismo, e Sufismo alla ricerca del distacco spirituale da una realtà percepita come disarmonica.
Forte della liberazione dal fruscio, riottoso margine d’implasmabilità della materia sonora, Humpty sembra ora intenzionato ad attingere il centro immobile del movimento.
Laddove l’eccitazione fracassona del precedente lavoro faceva uso della sovrapposizione metodica, “River Flows” opera tagli su un tessuto armonicamente già essenziale, e lascia vaporizzarsi il suono rimanente fra droni e riverberi distanti.
Qui l’esile trama melodica fatica a giungere a qualsivoglia compimento canzonistico e rimane a cincischiare fra cirri impalpabili e un arcobaleno di colori sbiaditi.
Disco di grande lievità dalla sostanziale anima pop è l’equivalente d’una sovraesposizione fotografica: la luce si spande liquida fra le corde della chitarra e l’ascolto, e l’impressione è d’attraversare una leggera e sognante nebbia da cui sporadicamente si materino bozzetti di folk pastorale (“Who goes amid the green wood” da Joyce), minimali cavalcate di mantra elettrico (“River Flows”), bislacchissime nursery rhymes (“Take the trash out”), stranianti stornellate per chitarra, voce e panning (“Love came to us”) e posto in chiusura, l’oscuro raga della notte di “Shell of night”.
Al netto di qualche ingenuità e della scadente resa sonora (di cui pure costituisce buona parte del fascino) “River flows” è disco formalmente compiuto e seduttivo.
Raramente l’imperizia ha raggiunto una tale perspicuità.
Carico i commenti... con calma