Probabilmente sapere che il portoricano Mister Luis Fonsi, l'autore di 'Despacito', il reggaeton diventato il vero e proprio tormentone di questo anno 2017, e che questi da cittadino americano (i portoricani sono cittadini americani, di recente un ennesimo referendum nel paese per diventare il 51mo Stato USA è stato un vero plebiscito a favore del 'sì', anche se la strada verso questo processo è parecchio lunga e complicata) consideri la sua canzone come 'la risposta migliore alla cultura dei muri e della divisione di Trump: una canzone diventata la numero uno del mondo americana e cantata in spagnolo,' fa un po' sorridere. Eppure le sue dichiarazioni contengono forse una piccola verità.

A parte che la lingua spagnola è negli USA la seconda lingua per numero di parlanti dopo l'inglese (una percentuale pari almeno al 14%), gli USA ospitano praticamente la seconda comunità ispanofona più grande del mondo dopo il Messico e prima di Spagna, Colombia e Argentina.

La verità che emerge da questo dato è che quelli che ancora Luis Fonsi come portoricano definisce suoi 'fratelli' i messicani, i centrocamericani e i sudamericani e in generale tutta la popolazione latina e ispanofona, costituiscono oggi una componente rilevante nel tessuto sociale degli Stati Uniti d'America e di cui Donald Trump, al di là della sua ideologia conservatrice e razzista e dei suoi propositi peraltro al momento irrealizati e lontani da essere termine, come chiunque altro faccia parte dell'establishment e del mondo della politica americana non può non tenere conto.

Naturalmente Luis Fonsi, al di là dei contenuti positivi del suo messaggio, e 'Despacito' (la prima hit cantata in spagnolo a raggiungere la prima posizione negli USA dai tempi de 'La macarena) non sono esattamente l'espressione di quello che si può definire il patrimonio culturale che gli 'ispanofoni' portano in dote agli Stati Uniti d'America, né allo stesso tempo qualche cosa che abbia effettivamente a che fare con quella giusta integrazione e commistione tra le due differenti culture (non ci sono evidentemente contenuti sociali in quella che del resto vuole essere solo una canzone pop) e che poi, andando a ritroso nel tempo, ha costituito di fatto una costante tra le diverse popolazioni che hanno nel tempo reso gli Stati Uniti d'America quel grande paese (pure carico di contraddizioni) che è oggi.

Adesso, senza tirare in ballo altre icone del mondo pop (penso in primis a J-Lo, che credo sia la personalità più popolare tra tutte) mi rifaccio semplicemente a quelle che sono le circostanze e che mi hanno portato a ascoltare ripetutamente in questi ultimi giorni questo disco degli Hurray for the Riff Raff intitolato 'The Navigator' e uscito lo scorso 15 marzo su ATO Records.

Una realtà nel mondo della musica folk e pop americana che sta acquistando sempre più notoriata già da qualche anno e un progetto fondamentalmente basato sulla figura e le capacità artistiche di Alynda Lee Sagarra.

Originaria di Porto Rico e cresciuta da sua zia nel Bronx, New York, Alynda è in realtà figlia di Ninfa Sagarra, una delle figure politiche di maggiore rilievo per la comunità portoricana di New York e storicamente molto vicina a Rudolph Giuliani.

Ma Alynda ha una personalitàà ribelle. All'età di di 17 anni lascia casa e comincia a girare per tutto il Nord America a bordo di treni merci. Nello stesso periodo (parliamo del 2007) entra a far parte dei Dead Man Street Orchestra, prima di dare vita agli Hurray for the Riff Raff, il progetto musicale con il quale si è effettivamente affermata come una realtà rilevante nel mondo della musica indie e alternative non solo negli USA ma anche in Europa.

Un successo che non è casuale ma oggetto di capacità artistiche e compositive, oltre che interpretrative, che sono al di fuori dell'ordinario e che si mescolano a quella che è una certa intelligenza e sensibilità di Alynda nell'entrare nel cuore delle vicende e delle realtà sociali del suo paese oltre che una buona conoscenza della tradizione musicale americana e di quella del suo paese di origine.

'The Navigator' è un concept album. Il disco come un'opera divisa in atti, racconta la storia della giovane portoricana di nome Navita Milagros Negron che conduce una esistenza border-line e per la strada, tra molestie e storie di abusi di droghe ed alcol. Inutile dire che Navita è anche molto Segarra e che la sua storia è anche la storia di New York, di un pezzo molto importante della città di New York e conseguentemente degli Stati Uniti d'America.

Il disco si apre immediatamente con una traccia sperimentale e volutamente introduttiva (il titolo è 'Entrance') e dove in qualche maniera subito emerge una certa contaminazione di genere in quello che è un pezzo solo vocale e dove sonorità tipicamente gospel si mescolano a quelli che possono essere cori da chiesa e la tradizione folk popolare irlandese.

Ascoltando l'introduzione diventa difficile capire che cosa ci si deve aspettare dal seguito del disco che con 'Living In The City', 'Hungry Ghost', 'Live To Save' mostra invece subito l'attitudine rock and roll del gruppo, che riprende delle sonorità che potrebbero essere state del Lou Reed più radiofonico o ancora meglio di Garland Jeffreys. Del resto Lou Reed, frustrato dal suo essere esponente di una classe media di religione ebraica e in cui non si riconosceva, avrebbe voluto essere nero e che allo stesso modo in cui egli abbia ispirato Garland Jeffreys (e contribuito alla sua notorietà, data la gigantesca popolarità di Lou) è anche vero che Lou avrebbe avoluto allo stesso tempo essere lui invece semplicemente un ragazzo cresciuto a Sheepshead Bay e di mezzo afroamericano e mezzo portoricano. L'attrazione reciproca in questo caso fu inevitabile.

Calandosi in una mimesi con il personaggio protagonista dell'album, 'Nothing's Gonna Change That Girl' segna un cambiamento nelle sonorità dell'album: una ballata folk suggestiva e in cui Alynda mostra tutte le sue incredibili capacità di chanteuse e che nella conclusione si apre a sonorità tipicamente ispaniche, mescolando il cabaret fatalista e elegante di Marianne Faithfull ('The Navigator', 'Halfway There', 'Settle') con la tradizione della musica latino-americana ('Fourteen Floors', 'Finale'). Ma se ci sono delle canzoni che fanno veramente la differenza e alla fine ti invitano quasi a alzarti in piedi e battere le mani, come se invece che ascoltare un disco stessi assistendo alla visione di un film in un cinema d'altri tempi, queste sono 'Rican Beach' e soprattutto 'Pa'lante'. Due canzoni cantate al piano da Alynda, la prima dalle atmosfere più tipicamente drammatiche e cinematografiche; la seconda invece una composizione apparentemente scoordinate e priva di punti di riferimento e in cui si spazia dalla genialità di Marianne Faithfull a visioni beatlesiane. Forse è la più bella canzone (inedita) io abbia sentito nel corso di questo anno 2017.

Penso che questo qui sia un disco che merita di essere ascoltato, anche più volte prima di essere apprezzato appieno, e andando oltre ogni forma di pregiudizio. A tratti, nel cercare di trovare un punto di confronto a questa giovane cantautrice, ho persino pensato a una artista gigantesca quale era Lhasa de Sela, anch'essa per metà ispanica e per metà cittadina americana e deceduto giovanissima e tragicamente per un cancro al seno all'età di solo 38 anni. Una artista incredibile e che forse a differenza di Alynda, si rifaceva a un immaginario desertico e visioni in qualche maniera derivanti dalla cultura zingaresco e popolare dell'America Latina. Qui invece il riferimento appare essere in ogni caso quello della città. Le storie di Alynda Segarra sono racconti suburbani a tratti drammatici e a tratti di quella stessa radicalità, profondità e estremismo di Lou Reed e Jim Carroll e il disco - 'The Navigator' - è allo stesso tempo una storia, come il racconto di una guida che letteralmente vi prende per mano e vi introduce nelle viscere del ventre della grande mela.

Carico i commenti... con calma