Non sono molti i dischi che sanno trasmettermi tanta malinconia.

Non è solo una questione di scelte armoniche, di scale, di suoni. È qualcosa di più intimo, di intrinseco. Come un liquido che impregna un tessuto saturandone le fibre, colmando gli spazi vuoti fra trama e ordito. Qualcosa che, proprio come un liquido, in una sorta di crudele processo osmotico, sembra passare dalla musica a chi la ascolta.

"The Eclectic Measure" ('06) avrebbe dovuto essere l'ultimo disco degli Hypnos 69. Ancor prima che fosse terminata la registrazione dell'album, infatti, la band aveva annunciato la fine del proprio viaggio, la conclusione di una storia cominciata più di dieci anni fa, che ha portato quattro ragazzi di Diest (Belgio) a calcare gli stessi palchi di personaggi del calibro di Brant Bjork e Alfredo Hernandez.

Solo così, forse, con la rassegnata consapevolezza che accompagna la scrittura di un epilogo, si può spiegare da dove arrivi quella malinconia che sembra pervadere anche i momenti più concitati del disco, quella tristezza, quel senso di "definitività" che ne accompagna l'ascolto.

"The Eclectic Measure", per gli Hypnos 69, rappresenta quello che di solito viene definito il "disco della maturità": le sonorità stoner che ancora facevano capolino nelle precedenti produzioni si sfaldano definitivamente, lasciando il campo libero a coordinate sonore che affondano le proprie radici nel progressive d'annata, ma per assorbirne i suoni e il gusto, più che le strutture. Canzoni per lo più brevi, di una fruibilità e di un'immediatezza davvero rara, in cui la forma canzone finisce diluita da divagazioni strumentali, senza, però, indugiare nello sterile virtuosismo, nell'onanistico esercizio di stile.

È un disco che, come un quadro a olio, si giova di molteplici stratificazioni, di linee melodiche, colori e materiali sonori contrastanti che si amalgamo e si mescolano senza urtarsi, sfumando gli uni negli altri. Ritmiche hard rock di matrice settantiana che illanguidiscono lentamente su vellutati tappeti di hammond e Fender Rhodes. Linee di sax isteriche, nervose, che ricordano forse fin troppo da vicino la nevrosi frippiana ("Ominous - But Fooled Before"), si sposano a ballate acustiche di una semplicità disarmante, su cui i fiati possono adagiarsi in soffici volute ("My Ambiguity Of Reality"). Atmosfere spudoratamente floydiane, di sussurrata tristezza, che prendono vigore in enfatici crescendo orchestrali (la commovente traccia di chiusura "Deus Ex Machina"). Hard rock, folk, progressive, un pizzico di psichedelia, addirittura alcuni passaggi che sembrano dover indurre le labbra a pronunciare il nome dei Motorpsycho ("Halfway To The Stars"), perdono volentieri di identità per mescolarsi, fondersi e confondersi.

Un disco triste e bellissimo a cui, forse, si può imputare di svelare troppo facilmente i propri segreti, di non avere pudore nel rivelare quali siano le proprie origini, le proprie fonti di ispirazione.

Nei mesi scorsi, la band ha ripreso l'attività live e ha annunciato che, entro l'estate 2008, rientrerà in studio per registrare un nuovo album.

Avrebbe dovuto essere la fine del viaggio. Sono felice che sia stata solo una breve sosta.

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