1)

Ho sempre considerato il juke box un oggetto magico e magici anche quei dischetti di plastica nera.

Ah, io ho il culto dei quarantacinque giri.

E mi fanno impazzire tutte quelle storielle di fanatici del garage punk coi loro pavimenti disseminati di rarità scovate in mercatini, cantine, sottoscala, ripostigli e quant'altro.

D'altronde una delle mie possibili idee di paradiso è un infinito di bancarelle con un infinito di dischetti, magari accompagnato da una sorta di Poison Ivy in sedicesimo.

Una delle mie idee, ho detto, le altre, per il momento, lasciamole perdere, anche perché sarebbero un tantinello sconvenienti.

Torniamo ai quarantacinque giri quindi , e a un oggetto ancora più magico del jukebox.

E quell'oggetto è una banalissima scatola da scarpe bianca. Una banalissima scatola da scarpe bianca piena zeppa di piccole sarabande sonore, che andavano da un tizio che avrebbe voluto la pelle nera a un altro che diceva il mio canto libero sei tu...

Da un favoloso cafone che parodiava l'amore universale in finto inglese maccheronico a un angelo fornito di valigia blu.

C'erano poi altre cose favolose, tipo l'assoluto esoterico di una certa Alice che sembrava non sapere nulla o l'interminabile elenco di mille tristissime figurine sotto un cielo sempre più blu...cosette, queste, che nemmeno ci provo a dirvi l'effetto che mi fecero allora...e me la caverò semplicemente dicendo che si trattava di una lingua nuova, anche se magari solo per le mie orecchie bimbe.

Che dire poi del caleidoscopio luccicante della sezione esteri: “Come together” “Angie” “Hey jude”, passando per l'incongruità quasi disco di “Reach out” che allora mi sembrava un gorgo misterioso e oscuro.

Oh, li c'era qualcosa che nelle cose italiche manco a parlarne.

Che poi il meglio era “Nubtush city limits” con quel suono colloso, ruvido e sporco, con quel iniziale riff assassino di chitarra quasi glam, il respiro funk, e la voce sguaiata di Tina.

Ah, “Nutbush”mi piaceva per quella vecchia faccenda nota come muovi il culo, ma anche perché mi ricordava la ragazza lupo, che altri non era se non mia zia.

E mia zia era la proprietaria di quella scatola da scarpe.

2)

Ora una zia ce l'hanno tutti. Ma non così. La mia era follemente libera e non si faceva impressionare da niente e da nessuno. Se una cosa le piaceva d'accordo, ma se non le piaceva non c'era verso.

Questa libertà si rifletteva anche nel suo aspetto.

Era infatti un fascio di nervi che si muoveva solo grazie all'impulso, un corpo magro in preda ai colpi di vento. Ed era bella con un viso da ragazzino furbo e gli occhi nerissimi e vispi, anche quelli pieni di vento.

Si, era bella.

E di una bellezza non convenzionale, per di più. Guardandola, infatti, si notava subito la sproporzione di un grande naso e di una grandissima bocca e l'incongruità di una strana fossetta sul mento, ma questi particolari aggiungevano unicità e forza espressiva, come se il suo viso fosse stato scolpito da uno scultore ispirato e folle.

I capelli erano lunghi, scarmigliati, ribelli e si vestiva con abiti a fiori scollati e cortissimi.

Era quindi una provocazione vivente per i beoti del paese che ne erano però anche spaventati.

E in più bisogna aggiungere che la sua voce, roca e profonda, dava un tono ultimativo alle risposte scarne che il panettiere, il fruttivendolo o chiunque avesse la malaventura di rivolgerle la parola, si sentivano gettare addosso.

Lei non faceva assolutamente nulla per piacere agli altri e possedeva una incredibile autorità naturale. Io vedevo addirittura le stelline dell'energia scintillarle intorno. E non ero il solo credo.

In paese la chiamavano la ragazza lupo. Un immagine perfetta. Ma io avevo bisogno di trovarne una mia. E questa immagine era la voce Tina, era quel suono pieno di energia...

E certo può sembrar strano che una donna angariata dal marito, che Tina questo era, prestasse la sua voce a una leggenda di libertà.

3)

Ma non c'era solo la zia, c'era anche la sua amica Big mama/pan di zucchero.

Big mama/Pan di zucchero faceva la maestra elementare ed era una creatura incredibile. Bellissima e gigantesca, aveva un fisico da scaricatore di porto e il viso da bambola. Il suo corpo, squadrato e morbido insieme, si muoveva imponente e flessuoso, senza esitare.

Poteva far pensare ad un grande albero, oppure a mamma orsa e in una favola avrebbe avuto tanti figli tutti uguali a lei.

Il suo viso era largo e larghi eran gli occhi, di un chiaro infantile e non vitreo.

Portava quasi sempre i capelli raccolti e quando li scioglieva era come assistere ai fenomeni della natura, il vento, la pioggia, l'arrivo del sole.

La voce dal leggerissimo accento dialettale faceva pensare a una nonna bambina e per questo era incredibilmente rassicurante, quasi terapeutica.

Era un animale femmina dalla forza tranquilla e veniva voglia di abbracciarla.

Big mama/Pan di zucchero non era del paese e ci si era trasferita poco dopo i vent'anni quando le avevano assegnato il posto di maestra.

Era sull'argine del fiume a cercare dei sassi per la lezione del giorno dopo, quando lei e la zia si videro per la prima volta. Big mama ne aveva già ammucchiati un bel po' sull'erba, e ne stava studiando uno con attenzione, quando la zia si accorse di lei.

"E' bello vedere qualcuno che guarda le cose con attenzione." disse.

"Oh a me piace guardare le cincisquiglie."

"Le cincisquiglie?"

"E' il nome che do alle cose piccole. Ai sassi, ma anche alle minuzie che trovo per la strada, che per me sono come dei tesori. Sai io sono un po' accattona e se trovo un fante di coppe, un fermacapelli, un bottone colorato, me lo metto in tasca. Che poi mi piacciono tanto anche le tasche e mi piacciono perché ci posso mettere tante cincisquiglie."

E la zia, immediatamente conquistata, pensò:“Come fa una gigantessa a parlare come una bambina? E, soprattutto, perché i suoi occhi sono così calmi?”

Ecco Big mama non era un tipo da riff assassino di chitarra, che poi leggenda vuole, e io sono per la leggenda sempre e comunque, che quel riff sia opera di Marc Bolan in persona No Big mama era più un tipo “Angie” “Hey Jude”.

D'altronde “dai contrasti bellissima armonia” diceva qualcuno.

4)

Big mama e la zia cominciarono quindi a vedersi spesso. Insieme preparavano il budino alla cannella e bevevano i liquorini ascoltando i dischetti della scatola bianca.

Dopo un po' di bicchierini incominciavano a storpiare le parole, dapprima solo una ogni tanto, poi qualcuna in più, poi tutte o quasi, infilandoci anche parole straniere soprattutto francesi... e un po' di latinorum... e fischi... e pernacchie.

Poi facevano l'imitazione di tutti i braghe scoreggiose che conoscevano, da Harry fiato di merda (che era il mio preferito e sputava cacca di capra dicendo madame) a Bernard culo di topo.

Io le ascoltavo, le spiavo e quando entravo si davano un contegno, poi cominciavano a ballare strette strette prendendomi in braccio

"Questo si che sa di miele e non di merda..."

Beata quella che ti mangerà di baci!!!"

E quel misto di sudore, liquorini e cannella era molto meglio dei tigli odorosi... e io non capivo più niente...

5)

Ricordo quando passeggiavamo tutti e tre sull'argine del fiume.

La zia tirava sempre fuori un quadernino rosso (dove il fratello, mio zio, aveva copiato i suoi versi preferiti) lo apriva a caso e cominciava a leggere.

Quando un verso ci ispirava particolarmente, lo ripetevamo più e più volte, chiudendo gli occhi fino a che uno di noi tre urlava. Poi cominciavamo a correre.

Quello che a me piaceva più di tutti diceva: "Nel cuore è quasi un urlo di gioia. E tutto è calmo" ed era di un poeta italiano, Sandro Penna.

Molti anni dopo non mi stupii leggendo le parole di un critico che definiva quei versi un capolavoro limite, un talismano. Noi, un bambino di dieci anni e due stravaganti ragazze di campagna di venticinque, lo avevamo capito benissimo.

Anche se poi a me piaceva soprattutto quel correre e quell'urlare.

In quelle passeggiate a volte la zia e Big mama fingevano di sfidarsi a duello per stabilire la padrona del mio cuore, e nell'aria sibilavano spade immaginarie, fino a che una stramazzava al suolo e l'altra mi trascinava sull'erba riempiendomi di baci.

“Sposami mio cavaliere!”

E poi la finta morta si alzava (di solito dicendo una cosa tipo “morire non è male, ma solo per un po', che alla lunga la morte è noiosa”) e celebrava il matrimonio:

”In ricchezza e povertà, in salute e in malattia, vi amerete alla follia.”

Un giorno però la zia che era la finta morta disse:

“Big mama oggi ci sposiamo noi due, prendi le nostre mani e uniscile bimbo caro.”

“Ma due ragazze non possono sposarsi.”

“Ah davvero?”

Allora ingrossò la voce, fingendo di essere un uomo:

“Sono un uomo ora, sposaci!!”

Presi le loro mani e quelle mani, quelle mani tremavano...

”In ricchezza e povertà, in salute e in malattia...”

Finito il rito le loro labbra si sfiorarono. Mentre tornavamo a casa, seguì il silenzio, che il silenzio non era nuovo con loro ed era bello come ogni cosa, ma quello era un silenzio di non ritorno. Le cose non potevano essere più come prima, la zia aveva lanciato il sasso.

6)

Dopo parecchi giorni Big mama venne a trovarci. Era sera e aveva portato dei dolcetti e c'era di nuovo la solita allegria e non quel silenzio.

Mi accompagnarono a letto e quando mi svegliai nel cuore della notte entrai nella stanza della zia. Erano li, nude, nel grande letto, la zia accoccolata all'ombra della grande montagna e io sentivo come un odore di pioggia, qualcosa di elettrico e dolce che toglieva il respiro.

Mi stesi sotto il letto e navigavo nel loro respiro, nella notte, nella pioggia..."nel cuore è quasi un urlo di gioia e tutto è calmo...nel cuore è quasi un urlo di gioia e tutto è calmo...nel cuore è quasi un urlo di gioia e tutto è calmo..."

7)

Ma ora devo confessarvi una cosa: in quello che ho scritto non c'è niente di vero. “Nutbush city limits” l'ho ascoltata per la prima volta alla radio.

E tutte le zie che ricordo erano degli orribili mostri che giravano col fazzoletto in testa.

Ma, uscita da un giradischi di campagna o da una scatolina gracchiante di città, la voce di Tina Turner fu per me la prima embrionale idea di rock, il primo suono davvero altro...

La prima cosa che assomigliasse a una leggenda di libertà.

Ah, qualcosa di vero c'è ed è quella scatola bianca. Solo che non conteneva dischetti di plastica nera, ma cassettine tarocche comprate da un elettricista.

La fantasia ha sempre bisogno di un piccolo appiglio.

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