Le mie cose non le stipo, le cospargo. Mi piace sorprendermi nel trovare la patente tra le lenzuola o nel aprire un cassetto e vederci dentro cose che nemmeno sapevo di possedere, che poi, di solito, sono sempre cazzate trasformate in oggettistica.
Le foto. Le vecchie foto le trovo un po' ovunque, alla rinfusa, tipo molliche di pane. Io le schifo le vecchie foto. Me lo ricordo ogni volta che ne vedo una. Le persone cambiano, io no, ecco tutto. Cambiano capelli, cambiano stili, mode, espressioni e così invecchiano. Beati loro. Io non invecchio. Mai. Sempre uguale, sempre stessa espressione, sempre stessa tipologia di vestiti. Converse d'estate, jeans tutto l'anno. Montgomery d'ordinanza per il freddo, giubbino di pelle per le mezze stagioni. Al massimo, cardigan per le fresche sere d'estate. Consumato uno stock se ne compra un altro. Una specie di Dylan Dog senza la vocazione del mistero e che prova orrore per l'orrore.

L'altro giorno ci pensavo, sfogliando vecchie riviste non mie. Uno speciale sul cosiddetto "Grunge", tristezza a go-go. Che foto orribili. Colori orribili, anfibi a tutto spiano, calzettoni calati a cazzo, bandane, bermuda, mutande di lana. Pensavo: se solo si fosse azzardato uno a camminare così vestito per il quartiere si sarebbe buscato tanti di quei ceffoni fino a rinsanire.
Sì, è un bel quartiere, nulla da dire, ma il problema è sempre lo stesso. Il problema dell'essere alla moda è che poi finisci fuori moda. Il bello e il brutto dell'essere fuori moda è che sarai sempre fuori moda. In pratica è un gioco a somma negativa, dove ti giri becchi qualcosa sul muso... musicalmente parlando.
Insomma, mentre c'era chi si ostinava a cantare dei problemi della dipendenza o chi di un bimbo morto - sì, il mondo è un vampiro e blablabla - c'era chi si faceva i cazzi suoi e fuori tempo massimo stampava canzoni su 7", in split e compilation iperboliche, per etichette così miserabili che forse non sono mai nemmeno esistite. E sarebbe meglio, forse.

Gli Indian Summer erano giovani e gagliardi. Il mondo l'avrebbero spaccato in due, peccato che proprio non sapevano che farsene del mondo. Durarono poco, quasi due anni, e non riuscirono a realizzare nemmeno un disco. Solo pezzi alla rinfusa che sommati danno nove perle, 35 minuti, parenti stretti di un capolavoro. Science 1994, per la madonna.

La formula è quella di mischiare il Post-Rock degli Slint con certe melodie fugaziane - Guy Piccioto uber alles -, più la tendenza verso un post-hardcore arioso e svolazzante che a tratti s'incattivisce e volgarizza. Il tutto condito da una personalità incredibilmente forte e da una autoreferenzialità che sfiora il patologico. Lo chiamavano Emocore, un nome scemo, prova che ovunque si opta per le stesse minchiate.

"I Think You're Train is Leaving", soffusa e cadenzata, si attorciglia su sé stessa prima che la distorsione la liberi, dopo la voce si fa sottile, piccola, sovrastata da un muro di chitarre. Un piccolo uomo sotto qualcosa di grosso. L'intreccio chitarristico di "Black/Touch The Wings of an Angel... Doesn't Mean You Can Fly" suona più o meno come dei Fugazi che decidono di coverizzare "Breadcumb Trail" rinunciando a quelli che sono i loro suoni, poi aprono il gas, melodia, Na-Na-Na-Na.
Il riff di "Aren't You an Angel" - prima canzone del primo, omonimo, 7" - diluisce gli Helmet fino a farli non-esistere, fino a perderli, a farli scomparire nella volgare e caotica "Millimiter", con la voce che sputa l'anima, manco fosse cibo messicano. Per "Woolworm/Angry Son" non basterebbero mille lacrime per descriverla, per raccontare di quella chitarra che si insinua, indaga quello che non andrebbe detto... una sorta di "Washer", quella degli Slint che mi fa sempre quasi piangere. Della stessa bellezza, fatta delle stesse sensazioni. "Sugar Pill" segue lo stessa ricetta: piccola, da sottofondo e poi prepotente, imponente.

E' una musica eterea, per quanto un "sano" ventenne possa fare qualcosa di etereo. Prima si fa leggera, poi pesante e cade, cade rovinosamente. La musica degli Indian Summer, ecco, assomiglia ad un gioioso tuffo da una scogliera che finisce in tragedia, con il superficiale tuffatore spiaccicato su una roccia che non aveva considerato. C'è qualcosa di lugubre e, allo stesso tempo, solare; un morto e la gente che continua a nuotare.

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