"In una gara come al solito tra bionde e more. In una gara come al solito tra bionde e more. In una gara come al solito tra bionde e more".

Tutti amano "Die", e non hanno torto. Ma quel disco non sarebbe esistito (e forse avrebbe avuto poco senso) se il lavoro d'esordio di Jacopo Incani non fosse stato così grande e violento come invece, fortunatamente, è "La macarena su Roma". Ed è anche un disco difficilissimo da fare, quasi impossibile non sbagliarlo. Un eserdio che punta subito a scrivere una pagina fondamentale, definitiva, del cantautorato italiano.

Non sono invettive facili quelle di Incani. Potrebbero sembrare, ascoltando superficialmente i versi sui migranti o sulla cultura televisiva nefasta della canzone che dà il titolo al disco. Le frasi, i commenti, le immagini che vengono vomitate dal cantante sardo nascondono invece molte pieghe che vanno a dipinge uno scenario profondo, completo e in un certo senso definitivo. Questa è una pietra tombale sull'Italia, sulla società e sulla cultura del Paese dal Dopoguerra a oggi. Per questo con "Die" Jacopo ha dovuto ricostruirsi una verginità lirica, perché tutto il discorso socio-politico era stato esaurito nel primo enorme sforzo creativo.

C'è tutto. I negri, la provincia e il sogno di emanciparsi, il razzismo e l'ignoranza, il calcio, la cucina, i sindacati, gli operai, i centri commerciali. E i padroni, la gola e l'obesità, il sesso e la vergogna. Sublimazione di tutte le storture dell'italiano medio è la cultura televisiva. Non a caso il brano che ne parla richiede quasi dieci minuti di frasi fitte per esaurire l'argomento. L'errore dell'italiano non è di semplice superficialità. No, egli è deviato nel profondo dalla tv, nelle emozioni, nei sentimenti e nei ricordi più intimi.

Tutto è andato in vacca. Le premesse del Dopoguerra, economiche e culturali, sono state tradite e sprecate. Il sesto stato vive in un "Dopoguerra tutto nuovo" perché non ci siamo spostati quasi da quella situazione. Parallelamente, il sogno di libertà e partecipazione cantato da Gaber ritorna beffardamente nella libertà di partecipare a un televoto. Tutto è perduto, un mondo di possibilità gettato alle ortiche.

La grandezza di Incani come autore sta nel riuscire a raccontare la catastrofe sia dal punto di vista di chi ne partecipa - e ne è parzialmente responsabile - sia da quello del vate che lo inchioda con i suoi giudizi. Ogni pezzo ha una lettura duplice, quella animalesca e inacidita dell'italiano medio e quella caustica dell'autore. Al suo meglio, Jacopo mette in bocca all'uomo qualunque proprio le parole che ne decretano la condanna. In altri casi si lascia sfuggire qualche staffilata velenosa. "Educati, a culo fuori, come vacche, come buoi".

In tutto questo disincanto, c'è un barlume di umanità, per quanto dolente, sanguinante e rancorosa. "Il corpo del reato" è la provincia sarda che richiama a casa il suo figliolo che vorrebbe andarsene. Ma tanto è inutile, torna al paese che abbiamo vinto le elezioni. Non sei un tipo originale, anzi esisti solo perché c'è spazio. Alla cattiveria paesana il cantautore risponde con un'istantanea, una scena del reato. Un ragazzo di provincia, con mani da muratore, che ha deciso di farla finita.

Parlando di sé, Incani dà implicitamente una risposta allo scenario nefasto dell'Italia. Andare controcorrente, anche quando la scelta è impopolare, quando il fallimento è quasi certo. Ma non può esserci una morte interiore più amara delle sagre di paese. E allora Jacopo s'è trasferito a Bologna e dopo qualche anno ci ha regalato questo capolavoro. "Allora hai deciso? Sei proprio convinto di fare qualcosa di originale? Ma sai che ti dico? Sei proprio un cretino".

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