Introduzione:
Per quelli non particolarmente addentro alle faccende di musica progressiva premetto che gli IQ (ossia Intelligence Quotient) sono un quintetto londinese di new-progressive, in scena da inizio anni ottanta a tutt’oggi e titolare di una dozzina di dischi registrati in studio, essendo il presente il quarto della serie, pubblicato a chiusura gli anni ottanta.
IQ si pregia di essere nel folto novero di gruppi assai apprezzati dal sottoscritto, sebbene non preferiti in assoluto… diciamo entro la prima cinquantina della personale classifica di gradimento, e questo a ragione dell’atteggiamento bipolare che mi suscita il loro catalogo di brani: in non poche occasioni la loro musica mi porta quasi al tedio… tipo buona parte del sesto album “Subterranea”, ma è pur vero che vi siano, qui e là in diversi loro dischi, momenti per me assolutamente magici, intere canzoni eccelse o più sovente passaggi sublimi all'interno di esse che mi mandano in solluchero, in panico estetico/estatico, in orgasmo musicofilo.
E’ un gruppo “atmosferico” più che propriamente melodico. Bisogna entrarci in vibrazione, non avere fretta. Totalmente derivativo, anche: i Genesis storici il loro modello preponderante, con tanto di cantante “teatrale” (anche autore di parecchie copertine dei loro lavori), artista più che intrattenitore, in gioventù pure guarnito di trucco e parrucco; e poi tastiere romantiche (meno invasive dei quelle di Tony Banks... poco pianoforte soprattutto), chitarra solista Hackettiana con tanto di suoni lunghissimi e rotondi oppure floridamente arpeggiata, ritmiche dispari appena possibile ecc.. Il tutto piacevolmente coerente e coeso, democratico, equilibrato, determinato, ingenuamente ma rispettosamente “serio” nell’approccio ad arrangiamenti e concetti di schietto progressive classico, temporalmente anacronistici quanto sinceri ed entusiasti.
Certo è rock classicamente europeo, bisognoso di svariati ascolti e innata predisposizione verso le sue tematiche: non c’è blues, non c’è rhythm&blues, non c’è jazz, insomma non c’è America e gli abituali paletti per definirli un gruppo rock tout court sono concentrati nella robusta sezione ritmica e nella strumentazione sonoramente amplificata.
Contesto:
E’ il 1989, i padri putativi Genesis, King Crimson, Yes, Pink Floyd sono da tempo involuti, se non proprio scoppiati e in pausa sabbatica; la musica rock che vende di più è ancora synth/plasticosa oppure glam/metallara, ma gli IQ viaggiano orgogliosamente per la loro strada, sorretti dall’entusiasmo di nicchia per il new progressive, da quella ciurma di irriducibili che non ci sta a mollare e far soccombere il genere. Son sempre vocati all’Arte e all’Ispirazione ma un ulteriore passetto di lato, il più accentuato possibile per la loro natura di fedeli e puristi nerds, stanno provando a farlo da qualche anno a questa parte.
Già col terzo disco “Nomzamo” del 1987 avevano deciso di pagare il loro primo tributo agli edonistici anni ottanta, costringendosi a sostituire il cantante originario: via (temporaneamente) l’artistico e Gabrielliano Peter Nichols e dentro l’assai simile come timbro di voce, ma più ordinario e asciutto Paul Menel.
In quest’album Menel è confermato, e pure la già avviata tendenza alla poppizzazione della proposta musicale. Niente di esagerato però, niente drastiche e urtanti banalizzazioni alla Genesis Collins-era, non per altro questo disco propone pur sempre ben due suite, una sui nove minuti e l’altra quasi otto. Il gruppo sta provando a realizzare il suo “And Then We Were Three” o il suo “Duke”… arrivando come sempre con dieci anni di ritardo.
Punti di forza e lacune:
Gli IQ hanno definito sin dagli esordi il loro suono peculiare: dolce, mesto, evocativo, attento, convinto, essenzialmente non-virtuoso. Se si ama il progressive è impossibile che qualche loro canzone non faccia breccia nel cuore e nella mente. Sono formulaici per natura (come tutto il new-progressive), ma pure conturbanti ed efficaci su almeno un terzo del repertorio e ciò li rende a mio gusto fra i migliori rappresentanti dell’ottantiana nuova ondata progressiva, secondi solo ai Marillon (quelli iniziali di Fish, non i successivi fronteggiati da Steve Hogarth, troppo rarefatti e prolissi, interessanti si, ma senza entusiasmo).
Vertici dell’album:
“Nostalgia” è qui il capolavoro assoluto: uno strumentale lineare, corale ed ipnotico posto a preambolo del successivo e variegato brano, il valido ma molto meno memorabile “Falling Apart at the Seams”. Anche dal vivo il quintetto esegue i due numeri sempre in coppia, linkati insieme a guisa di suite ma il meglio, ripeto, è quell’intro strumentale ed allora è bello che se ne abbia titolo e numero di traccia propri.
Il pezzo è relativamente breve… circa due minuti e mezzo non di più di agganciante fanfara di sintetizzatore simil-mellotron, la quale procede in tempo semi-lento prima evocativa (appropriatamente al titolo) e poi anche smargiassa una volta raggiunta dalla poderosa sezione ritmica.
Il principale esecutore e certamente anche autore, il tastierista Martin Orford, non è nuovo a progressioni armoniche geniali a mezzo di pieni, mellotronistici accordi (una per tutte quella che inaugura “Outer Limits” e l’album del 1985 “The Wake”, passaggio tra i preferiti dai loro fans me compreso), ma qui il dimesso ma eccellente musicista supera ogni aspettativa.
Si parte in semplicità con una progressione in triadi che, mantenendo il bordone di MI nei bassi, oscilla verso il suo bemolle e poi la sua quarta SI, poi ripetendosi mezzo tono sotto facendo dunque scivolare il bordone a MI bemolle.
La fanfara già così sarebbe struggente ed epica, ma ci pensa la sua chiusura a renderla sorprendente e, da un punto di vista armonico e compositivo, di assoluto genio. Il buon Orford al secondo giro decide di cambiare gli accordi e soprattutto muovere i bassi, innalzando il MI bemolle a FA diesis poi SOL diesis poi LA, per poi tornare indietro e sprofondare in un SI che regge un appagante, nutriente, risolutore FA diesis minore, ultimo di una serie di tre o quattro accordi inopinati.
Una figata, una di quelle sequenze che pretendono all’istante il ripetuto riascolto: si ha voglia acuta di ricaricarsi con gli intensi “giri” iniziali, risprofondare nella loro temporanea, straniante risoluzione e reiterare l’esperienza tante più volte. La (buona) musica è questo: nutrimento dello spirito mediante tensioni e rilasci, costruzioni e completamenti, attese e soddisfazioni. La nostalgia di cui al titolo è pienamente allusa, celebrata, disegnata anzi dipinta. Meraviglia!
Altro vertice del lavoro è “Trough My Fingers”, una ballata progressive pop cesellata dagli arpeggi di chitarra elettrica bagnata di chorus e guarnita da assoletti di sintetizzatore e chitarra, soprattutto arricchita da una melodia vocale ampia, stupendamente intorcinata, piuttosto difficile ma quel che più conta sorprendentemente buona e, come ciliegina sulla torta, da una partitura di batteria da campione.
Paul Menel (che mi ricorda un po’ lo stile e il timbro di Howard Jones) non è certo il miglior cantante che ci sia, ma qui se la cava al meglio! Il brano è proprio nelle sue corde: senza strafare ondeggia fra le note baritonali delle strofe e il falsetto dei ritornelli con encomiabile convinzione e indovinata espressione. La complessa melodia ci mette un sacco a distendersi e semplificarsi (alla grande) nei ritornelli, divenendo via via stentorea e convinta: una perla.
Meglio ancora quel che combina Paul Cook dietro a tamburi e piatti: una vera lezione di accompagnamento progressivo di ballata pop. Non rinunciando al suo abituale stile detonante e asburgico, il musicista tiene il quattro quarti normalissimo del pezzo facendo la differenza nei fills, condendo di estro ogni passaggio da una sezione all’altra del brano con una sequenza di brillanti invenzioni, specie con la cassa. Molto, molto scuola Bill Bruford, riconosciuto maestro del settore (settore “faccio sparire un attimo la cassa e poi la faccio tornare dove nessuno se l’aspetta”). Paul è il musicista più brillante degli IQ e in quest’occasione lo si realizza in pieno.
Il resto:
Otto brani in scaletta, due ben estesi come già accennato e sei diversamente normali (dai due ai cinque minuti).
“War Heroes” in apertura ha un canto stentoreo (un tantino stridulo) che sostiene il crescendo del pezzo, dall’elettronica d’atmosfera iniziale al medium rock. Ben ascoltabile, ma manca un ponte, una modulazione e poi sei minuti e mezzo sempre su di un’unica frase musicale sono eccessivi.
“Drive On” paga decisamente tributo al synth-pop imperante al tempo, sia per le sequenze programmate sulle macchine di Orford che per il modo di cantare, a frasi spezzate e ripetitive, di Menel. Un lungo e non particolarmente ispirato solo di chitarra di Mike Holmes si incarica di “stirare” il pezzo fino ai quasi cinque minuti. Il ritornello è poco attraente, senza “ganci” né strumentali né vocali. Meglio lasciare ai Duran Duran questi spernacchiamenti sintetizzati: pollice verso.
“Falling Apart at the Seams” è la tipica, mediamente riuscita canzone degli IQ: cambi di ritmiche, parti soliste, impegno arrangiativo, cantati che vanno e vengono e verso la fine c’è una ripresa rock del tema della precedente “Nostalgia”. Tutto squisito ma drasticamente immemorabile… si apprezza tutto all’ascolto ma alla fine poi non resta una sola nota, un solo passaggio in memoria.
“Sold on You” è progressive pop leggerotto e banale, in teoria mezzo per aprirsi il mercato ma, al rendiconto dei fatti, un mero riempitivo.
“Wurensh” è il pezzone da quasi dieci minuti, centro nevralgico dell’album, il posto ideale per chiunqui cerchi dal progressive complessità strumentale, virtuosismo, cambi d’atmosfera. Il titolo è anagramma di New Rush e sforzandosi un poco i richiami alla super banda canadese si trovano (tastiere in controtempo, staccati corali, batteria trafficata). Non più di tanto però, perché Menel è cantante troppo diverso da Geddy Lee; peraltro la sezione ritmica non fa rimpiangere i superassi di Toronto, Geddy appunto e Neil Peart. Il brano termina con un saggio alla chitarra classica di Holmes, semplice ma competente.
“Nothing At All” è sorretta da una frase reiterata molto bella di tastiera e chiude bene il lavoro, in maniera sinfonica e compatta.
La copertina sci-fi? Beh, la trovo bruttina forte, compreso il lettering del titolo, che però è carino e originale.
Giudizio finale:
Disco discreto, reso attraente (ovvero indispensabile nel caso di convinti ascoltatori di progressive) dal paio di prodezze contenute e descritte compiutamente sopra. Gli IQ hanno di meglio in discografia (“Ever” del 1993, ad esempio) ma anche assai di peggio.
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