Prima di lodare o denigrare l?ultimo episodio della saga della ?Vergine di ferro?, sarebbe opportuno fare una digressione sul perché molte band dal passato leggendario, dopo un periodo di tempo calcolabile sommando l?importo delle rate della villa da pagare, si rimettano insieme: l?esito di tali reunion, come auspicabile, non è sempre artisticamente promettente, ma agli Iron questo sembra non interessare.
Onestamente le nostre facoltà mentali non sono ancora così ottenebrate da pretendere un altro capolavoro quale ?The Number of the Beast?, dato nell?ultima decade le produzioni della band si sono sempre situate tra il mediocre e il discreto. Non vogliamo però tediarvi oltremodo, gentili uditori, certi e fiduciosi che il signor Harris e soci hanno sempre mantenuto un saldo legame fondato sulla reciproca stima e l?amore per la ricerca musicale, anche a costo di scontentare i fan più devoti.
L?album si apre sottotono con ?Wildest dreams?, che fin dalle prime battute si aggiudica il tapiro d?oro come brano peggiore dei Maiden: scritto sul modello della più fortunata ?The wicker man?, il succitato brano cerca di recuperare la ruvida spontaneità degli esordi, facendo appello ad episodi come ?Moonchild? o ?The ides of March?, mantenendo intatta la struttura ma stemperandone l?impatto.
Si passa alla title track, una oscura litania dagli accenti fiabeschi che un arcigno Dickinson interpreta con sinistra classe: il giro iniziale viene arricchito da un intermezzo orchestrale semplice quanto efficace che, per una volta, si discosta dalla consueta soluzione assolo/ritornello tipica delle ultime produzioni maideniane.
In molti episodi del disco si nota la sempre più palese dominanza dei toni epici che hanno fatto la fortuna del precedente ?Brave New World?, in particolare con l?aulica ?Montsegur?. Anche ?Paschendale?, uno dei brani di maggior effetto del disco, segue questa tendenza, ma l?andamento altisonante sembra frenato dalle ormai onnipresenti soluzioni manieriste del combo inglese. A questo artificioso riciclaggio sonoro segue ?Age of Innocence?, un semplice riempitivo che negli anni Ottanta non avrebbe trovato spazio in una pubblicazione se non in una b-side.
?No more Lies? e ?Face in the Sand? confermano la tendenza sempre più preoccupante da parte degli Iron di sfruttare fino alla nausea le strutture armoniche che li hanno resi grandi: entrambe le canzoni sembrano scritte sulla falsariga di una ?Fear of the Dark? o di una meno popolare ?Mother Russia?, dove, come da contratto, dopo il tradizionale intro arpeggiato, arriva in un prevedibile crescendo l?accelerazione su cui Dickinson canta di orrori a sfondo storico cari al ?Maiden style?.
Il senso di tedio diffuso e di angosciante ripetitività viene per un attimo dimenticato in chiusura con ?Journeyman?, primo e finora unico brano interamente acustico del gruppo che rivela un?inedita e sorprendente componente della trama sonora del gruppo.
Sostenuta da un imponente arrangiamento d?archi, la canzone rivela una vena melodica ed una insperata versatilità, che risolleva le sorti del disco in chiusura, lasciando ben sperare per le future evoluzioni del sound del gruppo.
In conclusione, non possiamo giudicare ?Dance of Death? un brutto disco, dal momento che, per quanto deludenti, anche i Maiden meno ispirati hanno l?astuzia di inferire il colpo vincente. D?altronde siamo al cospetto di una band che ha reso grande l?heavy metal, pertanto il disco in questione potrebbe facilmente essere definito ?noioso ma con classe?, un lavoro realizzato da vecchie glorie che oramai creano musica con lo stesso trasporto emotivo con cui un impiegato timbra il cartellino.
Siamo dunque certi che ?Dance of death? non scontenterà i fan più giovani ed ingenui degli Iron, così come quelli più nostalgici, qualificandosi come un episodio di puro mestiere, sempre più lontano dai capolavori che hanno reso grandi gli Iron Maiden. Una dimostrazione del fatto che in certi contesti anche la ripetitività può diventare una rassicurante certezza.
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