Ritenuti da molti già finiti, dopo appena otto dischi, perchè spazzati via dal grunge dei nirvana, gli Iron Maiden sfornano nel 1992 un disco non memorabile, ma che si rivela uno dei loro maggiori successi commerciali: i defenders of the faith fanno centro nei cuori metallari con un LP non eccelso dal punto di vista delle canzoni, ma che contiene alcune perle vere e proprie del metal e appare un disco sentito, caloroso, fatto con il cuore, e proprio per questo con qualche imperfezione che il cervello avrebbe tolto.

Janick Gers si è finalmente integrato e cerca finalmente di uscire dall'ombra di Adrian Smith, con alterni risultati: risulta comunque molto più maturo nelle sue composizioni e disinvolto nei live di quanto non lo fosse nel 'No Prayer On The Road'. Le prestazioni di Bruce, che è sempre più tentato da quella carriera solista che non gli renderà gli onori che si merita, ha delle prestazioni vocali eccelse, interpretando in maniera memorabile alcuni brani, tra i quali la favolosa title-track.
Si parte con "Be Quick Or Be Dead", speed metal al tritolo con il quale i boys apriranno i concerti nel tour promozionale e in quello dell'addio (arrivederci) di Bruce. Brano perfetto nella struttura, questi quasi tre minuti e mezzo di inizio sono l'inizio migliore di un Lp firmato Maiden sin da 'Somewhere in Time'; in sè il pezzo attacca i banchieri britannici. Venne poi estratto come primo singolo, con un video frenetico nella regia. Si può già notare l'affiatamento di Gers e Dickinson, coautori del brano. "From Here To Eternity", secondo singolo, è l'ultimo episodio della saga di Charlotte The Harlot, in cui lei va con il diavolo in persona. Il pezzo sembra un tributo agli AC/DC, che cantavano "Hell Ain't A Bad Place To Be", mentre qui il ritornello è "Hell ain't a bad place, hell is from here to eternity". Il pezzo, firmato Harris, anche se non è un capolavoro, si rivela una discreta sorpresa; vigoroso, selvaggio, viene interpretato dalla band con molto spirito rock'n'roll, senza l'ansia da prestazione che circondava tutto l'album "Seventh Son", per esempio. Infatti, tutto il disco si ripropone un ritorno alle radici metal più semplice, come 'No Prayer For The Dying', solo che più riuscito.

"Afraid To Shoot Strangers" è considerato tra i migliori momenti del disco, con una parte strumentale che ricorda un po' "Hallowed Be Thy Name". Si percepisce che è un brano scritto da Harris, che riversa le SUE radici prog in questi sette minuti entusiasmanti, tanto che verranno contenuti anche nella prima antologia, 'Best of the Beast', e rimarrà nelle scalette fino al Virtual XI Tour. "Fear is the Key" è ancora firmato Dickinson-Gers, ma è piuttosto tedioso come pezzo; Maurizio de Paola ha fatto notare che forse suona vagamente come Kashmir dei Led Zeppelin, ma resta comunque un pezzo inutile. "Childhood's End" (Harris) è curioso, ricorda forse "Still Life", non ha molto mordente ma risulta un pezzo discreto, per quanto sia introspettivo. "Wasting Love" è un brano che piacerà tanto agli stessi Irons, che non mancheranno di proporlo in sede live; è il primo loro pezzo dedicato veramente all'amore, non è una ballata sdolcinata in stile Bon Jovi, ma un pezzo sofferto con un assolo ottimo e con un ritornello molto orecchiabile; è stato il terzo e ultimo singolo. "The Fugitive" è un po' uno spreco di tempo, mentre "Chains of Misery" è strana, non proprio in stile Maiden, con sonorità che richiamano vagamente i Whitesnake e tutto l'hard rock anni '80, ed è un esperimento non fallito, ma che non verrà più ritentato.

Dopo la pessima "The Apparition" (che concorre a Peggior Canzone Iron Maiden di tutti i tempi), arriva la strana "Judas Be My Guide"; le liriche sono difficili da interpretare, ma il pezzo è veloce e molto godibile, uno dei migliori del disco. La penultima "Weekend Warrior" non è un granchè, ma si lascia ascoltare e fa da preludio al Capolavoro, il pezzo che il metal aspettava per essere completo, "Fear Of The Dark", uscito dalla penna di un Steve Harris fino a quel momento in ombra forse nel disco, ma immenso in questo brano. La canzone da sola riesce ad abbracciare tutte le componenti metal: sound duro e potente, improvvisa accellerazione, grande voce, tematica dark. E' l'ultimo pezzo che diventa un classico da concerto, sempre acclamatissimo dal pubblico, una delle loro due canzoni migliori, seconda solo ad "Hallowed Be Thy Name", ma più famosa. Parte con un'intro solenne, solo chitarre, poi scivola su una linea di basso con una chitarra dal suono non distorto sul cui suono Bruce comincia a parlarci, a raccontarci, a spaventarci. Perchè non è un testo qualunque, ma un vero e proprio tunnel dell'orrore: "Sono l'uomo che cammina da solo e quando cammino in una strada buia di notte o nel parco, quando la luce comincia a cambiare mi sento un po' strano, una leggera ansia quando sopraggiunge il buio, paura del buio, paura del buio, ho la costante paura che qualcosa sia vicino, paura del buio, paura del buio, ho la fobia che ci sia qualcosa lì". Agghiacciante, vero? Poi parte un'accellerazione improvvisa e bruciante, con un riff geniale che ti si stampa subito in mente e ti provoca un headbanging immediato, e allora Bruce urla la storia che ci fa paura: "(...)qualche volta hai paura a dare un'occhiata all'angolo della stanza perchè hai la sensazione che qualcosa ti stia guardando (...), sei mai stato da solo di notte, ti è sembrato che qualcosa si muovesse alle tue spalle, ti sei girato e non c'era niente? Ma appena hai voltato le spalle hai paura di girarti di uovo, perchè SAI che c'è qualcosa dietro di te (...)". Ancora ritornello, riff, bridge, due grandi assoli, bridge, ancora riff, ultima strofa, ritornello e chiusura sulla melodia suffusa, con l'ultimo, cupissimo verso sussurrato da Bruce: "Quando cammino in una strada buia sono l'uomo che cammina da solo".

Seguono all'LP due tour (da cui verranno tratti "Live at Donington" e "A Real Live/Dead One"), il primo di promozione e il secondo per salutare Bruce, che però non sempre appare in formissima, o quantomeno voglioso. Si rifarà da "Accident Of Birth" in poi, fino al glorioso ritorno alla casa madre. Qui si chiude la prima avventura di Dickinson, dal prossimo album si Harris (soprattutto) e compagni cercheranno di intraprendere una viaggio introspettivo che si rivelerà una scelta azzeccata solo a metà; il suond subirà vari rinnovamenti e cambierà, orientandosi verso a volte prog metal (vedi le future "The Unbeliever", "Sign of the cross" o "Brighter than a thousend suns", e ce ne sarebbero altre), a volte verso un rock più composto ("Look for the truth", "Como estais amigos") che però non è da vedersi come una perdita, ma come il coraggio di una band che ha provato (comunque senza stravolgersi) a variare e a raggiungere nuovi orizzonti.

Magari poi i primi dischi sono i migliori, ma Harris e compagni sono convinti e felici di questi rinnovamenti, e se una rockstar è soddisfatta del suo operato, anche il fan poi finisce per apprezzarlo.

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