Ampia premessa.

Credo che recensire un disco degli Iron Maiden qui su DeBaser equivalga a gettarsi, dopo un bel bagnetto in ammollo dentro una vasca di salsa barbecue, in una tana piena di lupi a digiuno da un mese. Ben conscio di quanto sto facendo, decido comunque di scrivere questa recensione per vari motivi, sperando che nel frattempo non ne vengano pubblicate una caterva.

In primis perché chi vi scrive è un fan del gruppo. O meglio, precisiamo: non uno di quelli che possiede ogni gadget messo in commercio dalla band inglese, o tantomeno uno di quelli che li immola con disarmante sicurezza a miglior band metal di tutti i tempi (mai fatto e mai lo farò, ma qui entriamo in un altro discorso), ma semplicemente uno che ritiene l’era ottantiana una decade praticamente inattaccabile sotto il profilo qualitativo ed espressivo, senza contare un paio di ottimi album post ’88 e un altro paio di dischi tutto sommato ben riusciti, ammettendo comunque e chiaramente che più di un passo falso l’hanno sicuramente fatto (Virtual XI su tutti), e soprattutto con o senza Dickinson.

Secondo motivo per cui recensisco tale disco è perché sì, ne esiste già una recensione (di Green fra l’altro, sul quale posso solo spendere parole positive, almeno da quanto ho letto fin’ora), ma sulla quale non sono sostanzialmente d’accordo, tanto per dire un eufemismo; in ogni caso, due punti di vista sono sempre meglio di uno.

Terzo, perché ne vorrei approfittare per dire la mia sulle varie critiche che piovono frequentemente sul gruppo e che sinceramente mi innervosiscono un pò. Strano, tenendo conto di quanto poco me ne freghi di sentire commenti campati per aria attraverso lo schermo di un computer, ma ciò che mi fa seriamente venir voglia di star qui a perdere tempo e rispondere a tali utenti è la superficialità di tali sentenze, contornate spesso da una scarsa cultura musicale della band stessa, magari del genere stesso volendo fare tombola.

Rivolgendoci verso il disco vero e proprio, l’album è il più lungo mai registrato dalla band e il più distante temporaneamente dal precedente (4 anni contro i 3 ai quali ci eravamo abituati dall’era Bailey, escluso “Brave New World”).

L’album sembra praticamente diviso in due parti: le prime cinque tracce, infatti, risultano sulla falsariga delle vecchie produzioni, con una durata media di poco superiore ai cinque minuti, eccezione fatta per la opener, una sorta di medley fra una sorta di introduzione al disco e la title-track vera e propria “Satellite 15… The Final Frontier”, mentre le restanti cinque canzoni riflettono l’andamento degli ultimi dischi, in particolare di "A Matter of Life and Death", con canzoni che vanno alla lunga distanza senza fare troppi complimenti, raggiungendo l’apice con una traccia conclusiva, “When the Wild Wind Blows”, che tocca praticamente gli undici minuti.

Come suggerisce la copertina e soprattutto l’artwork dell’album, il mood del disco si inquadra in un’atmosfera quasi spaziale, atmosfera che risulta immediatamente percettibile nella opener scritta da Harris e Smith, divisa fra un inizio quasi cataclismico e ridondante e una seconda parte da vero e proprio singolo, vista la facilità disarmante nell’ascolto; da qui sembrerebbe chiaro chi dei due ha contribuito maggiormente a quale delle due parti.

Da lì una serie di tracce parecchio immediate per gli standard maideniani. “El Dorado”, rilasciata tempo prima, è probabilmente la peggiore di esse, vista la strofa non proprio ispirata e la generale piattezza del pre-chorus… peccato, perché il riffing di base non è malaccio, senza contare il ritornello, unico momento davvero degno di nota della canzone. Seguono l’intrigante “Mother of Mercy” la solenne “Coming Home”, per poi andare su binari più spediti con “The Alchemist”, episodio riuscito tutto sommato bene.

Il massimo che il disco ha da offrire rimane comunque nella seconda parte, ovvero nella escalation di tracce dalla lunga durata. Per quel che mi riguarda, non si può rimanere totalmente impassibili di fronte al lavoro svolto con canzoni come “Isle of Avanon”, “The Talisman” e soprattutto “Starblind”, soprattutto per le atmosfere evocate e per il lavoro profuso sia nella sezione ritmica che nel lavoro alla solista del trio Smith/Murray/Gers, nonostante di mezzo ci siano le ormai solite influenze di Harris per quanto riguarda le progressioni in Mi o le sgroppate ben sostenute da McBrain. Dunque sì, la solita minestra riscaldata come direte voi, le solite canzoni basate su continui cambi di riff, ampie sezioni strumentali, atmosfere e progressioni per la chiusura finale, ma da qui a dire che “è un disco di merda”, come è ovviamente facile dire per chi non ha pazienza e/o voglia di ascoltarselo tutto, ce ne vuole, e parecchio anche.

Per chiudere mancano solo la trascinante “The Man who would be King” e l’introspettiva “When the Wild Wind Blows”, seppur con l’ennesimo accenno di cavalcata harrisiana che, per quanto apprezzabile, sa ormai di stantio.

Quindi che dire, un disco che sostanzialmente di nuovo non ha niente, ma che può comunque piacere senz’ombra di dubbio ai fan della Vergine di Ferro, e che volendo potrebbe pure ritagliarsi un piccolo spazio per gli amanti del genere, a condizione che questi siano sufficientemente maturi per prendere l’album per quello che è: il quindicesimo in studio di una band sulla scena mondiale da ormai trent’anni. Il che significa che se le idee veramente nuove e fresche scarseggiano sarebbe pure normale visti gli anni che sono passati, fermo restando che questo inevitabile calo non deve essere preso come totale attenuante per delle scelte compositive a tratti indubbiamente trite e ritrite.

Per chi infine mi dice che le urla di Dickinson hanno rotto e che non si possono sopportare i minuti di introduzione strumentali o non… ragazzi, ogni band ha il proprio stile, se non si è maturi a sufficienza per ascoltare queste canzoni e giudicarle coerentemente (e soprattutto civilmente) non è colpa di nessuno, senza contare i geni che se ne lamentano quando poi sbavano dietro l’ultimo disco dei Metallica, con la stessa durata media delle canzoni e riff macinati a caso giusto per abbindolare l’ascoltatore facendogli credere di essere tornati ai “fasti” di un tempo.

Concludendo, il voto del disco lo vedete: ho cercato di rimanere il più obiettivo possibile, sta a voi cercare di notarlo, e spero di esserci riuscito. Sarà la solita minestra riscaldata (neanche tanto poi, se si ascoltano con attenzione certi passaggi nelle canzoni da me citate), quello che volete, ma se si riesce a suonare qualcosa che ancora si fa ascoltare dopo trent’anni direi che si può già parlare di un mezzo successo, e questo mi basta.

Piccola nota di chiusura: pure io credo che questo “The Final Frontier” sia abbastanza eloquente sul loro futuro, sperando si limiti ai lavori in studio, visto che dal vivo probabilmente suoneranno fino a tirare le cuoia. Ed è meglio così, dato che in sede live tirano ancora come pochi altri.

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