"Io sono fatto così,
mi piace dare fastidio alla gente,
io sono così,
mi piace andare controcorrente..."

"Ivan chi? Ivan Graziani? Ah sì, quello delle canzoni su Firenze e Lugano": questa è, nel migliore dei casi, la risposta che mediamente si riceve nel tirare in ballo Ivan Graziani. Una media stimata tra coloro che ne ignorano l'esistenza, tanti, quelli che l'hanno sentito giusto nominare o passare meteoricamente insieme ai suoi successi, e quelli che l'hanno potuto scoprire, apprezzare, approfondire. Tanto per darvi un'idea, io l'ho conosciuto mentre vedevo uno dei prodotti di punta di mamma Rai, Tale e Quale Show; manco a dirlo, l'imitatore ha cantato Firenze, ma tanto bastò ad incuriosirmi. E più sono andato avanti con la ricerca, più si è fatto strada in me un genuino stupore per le composizioni che ascoltavo. Sin dall'inizio, ho trovato nel cantautore abruzzese una capacità rara di fotografare pezzi di vita e costruire storie che durano il tempo di una canzone, di affrontare la tematica amorosa in maniera non canonica, di attingere a tutto un immaginario dell'assurdo e del grottesco mescolato al folklore. Ma soprattutto, in Graziani ho trovato tanto Rock. Nella sua forma pura, incontaminata, a cavallo tra un approccio più beatlesiano (il nostro era un folle amante dei Fab Four) e un suono scevro da qualsiasi influenza pop; due anime unite dall'unico, grande amore per la chitarra. Un equilibrio fra due poli che semplifica la varietà compositiva delle opere di Graziani, ma che ritengo renda bene la sua unicità nel panorama della canzone italiana.
Il disco in questione, Ivangarage, contiene alcuni dei brani che mi hanno stregato in questo senso. L'anno è il 1989, e il nostro paese ha già attraversato fasi musicali varissime, che vanno dal prog all'hardcore alla new-wave, ma anche alla luce di ciò l'album non mi è risultato meno incisivo. Il manifesto programmatico di un'intera poetica è riassunto nell'opening-track, Prudenza mai: è dichiarato il menefreghismo verso le convenzioni e le gabbie (stilistiche e morali), insieme al rifiuto dei perbenismi che contraddistingue un po' tutto il lavoro di Graziani. Non è mai una protesta sguaiata, ma intrinseca alle liriche del chitarrista di Teramo, che fa proprio dell'essere un misfit il suo punto di forza. Questa canzone è anche un buon esempio dei riff graffianti ma orecchiabilissimi che si ritrovano disseminati in tutto l'album, da quello di Un Uomo a Psychedelico sino ad Ora et Labora. E' il garage del titolo, la violenza del suono grezzo e buttato fuori come un urlo lancinante, raramente riportato con tale semplicità e incisività da un autore italiano. D'altronde, a completare la formula magica, nel titolo compare anche Ivan, la parte che sa lenire con la sua voce delicata ed efebica, che armonizza tessendo le trame compositive. Il cerchio, alla fine, quadra. L'anima rock si sposa con l'anima ballad, e ci ritroviamo di fronte ad un ossimoro come I metallari, canzone dal titolo che preannuncia i botti, e che si rivela invece una cantilena tenera e quasi puerile. Oppure all'ideale micro-film che è il testo di Johnny non c'entra, girato con grande economia di parole, eppure tremendamente efficace.
Per non dilungarmi eccessivamente, lascio a voi il compito di scoprire le altre tracce dell'album, di gasarvi al suono delle chitarre eletttriche o struggervi nell'ascoltare questa o quella ballata. Sono sicuro che anche voi vi innamorerete, subito o più lentamente, di Ivan, del suo canto palliativo e dei protagonisti strampalati delle sue storie, che non fanno che rispecchiare le nostre storie di vita.
Ve lo giuro sulla Fender.

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