Cocktails di sirene


Dove l’avevamo lasciato?
Girovagava bello “pieno”, addizionando addizione ad addizione.
Il fantasma di se stesso, confesserà lui anni dopo a qualche giornalista.
Il glorioso passato, addirittura leggendario (P.I.L.) era, appunto, passato.
Non era lui la stella di prima grandezza, a brillare sotto i riflettori, già ai tempi del botto.
Figurarsi ora, quando tutto era spento e a malapena si teneva a galla il futuro immobiliarista Lydon, reiterando con la sua voce isterica e sguaiata le proverbiali litanie.

Così un po’ i fatti suoi, un po’ i miei, l’avevo quasi scordato, Jah Wobble.
Un oblìo durato il tempo necessario perché mi sorprendesse ritrovarmelo davanti, molti anni più tardi, alla guida dei Jah Wobble’s Invaders of The Heart! Mica gli amici del bar sottocasa.
Aveva fatto molte altre cose, prima. Che io avrei ascoltato in differita (sono sempre distratto e in ritardo, così mi guadagno sorprese postdatate) E altre ne farà, misurandosi anche con Solaris e William Blake. Meritano probabilmente maggiore attenzione, tante son le idee che ci infila, gli altrove mescolati intorno al suono del suo basso. Insomma, il bassista dei P.I.L. era diventato un solare alchimista world?
Boh… strane sorprese, a volte.

In ogni caso, qui, nel 1994, non si è fatto mancare nulla. E questo è un disco pop.
Intanto la pattuglia che ha radunato per questa missione è ormai affiatata, ed il morale degli Invaders è ottimo e abbondante (o quello era il rancio?)
I suoni sono spesso una goduria, abbondanti e curatissimi anche loro: il brillante scintillio delle corde, la profondità gommosa dei bassi, elettronica e percussioni: tutto fila liscio, la produzione è eccellente.
Ma copiose e variamente assortite sono soprattutto le collaborazioni. Basta scorrere l’elenco dello stuolo di voci che prendono parte alla festa. Spesso più d’una per scenetta. E qualche volta davvero imprevedibili.
Di aprire la porta (“God In The Beginning”) ad esempio, in compagnia del padrone di casa, si incarica Andrea Oliver. Ed è già un’altra sorpresa: la sua voce l’avevo sentita nei Rip Rig + Panic, e da allora credo mai più.
Nell’improbabile “Amor”, alla zuccherosa latineria, assecondata da chitarrina e congas, di un’esplicita Ximena Tascon: (“Tu eres my ombre, pero non lo sabes, tu seras mi hombre”) risponde anche più diretto (“I just wanna make love to you“) Spikey Tee. Ma siccome il concetto potrebbe risultare oscuro, nella successiva estensione dub del medesimo pezzo, il compito di ribadirlo è affidato a Chaka Demus & Pliers.

Ed è qui dentro che sento per la prima volta la voce dell’algerino Abdel Ali Slimani (ed è un bell’anticipo dell’album “Mraya”, consigliato, che pubblicherà con la Realword,) nella title track arabosa che Jah personalmente condisce anche con le tastiere e un Hammond B3.
Ma appena il rullo, girando, presenta un nuovo fondale, questa volta con rovine tra i tappeti erbosi e le appuntite montagne dipinte, ecco spuntare un mandolino. Ed ecco la cavalcata di “The Sun Does Rise”, che comincia al trotto e accenna un galoppo quando i cori circondano la voce di Dolores O’Riordan.
Pure lei, la cantante dei Cranberries, dici?
Oh, si, ma è solo una delle cartoline possibili.

Infatti la traccia successiva ci trasporta già in qualche altro altrove, ad ascoltare il duetto di Natacha Atlas e Anneli M. Drecker (Bel Canto). Chi le avrebbe immaginate insieme quelle due?

E non siamo che a metà della festa. Ma non c’è rischio di spaesamento, nessuno si sente a disagio: lo spazio è accogliente, gli invitati educati, il rullo continua a girare. Ed è solo per interrompere il flusso e staccare un po’ che questa volta è un fondale notturno, anche lievemente minaccioso,“Yoga Of The Nightclub” ad accogliere un altro ospite inatteso: Gavin Friday. D’altra parte volevi inondarlo di luce, magari caraibica , quello che fu il cantante dei Virgin Prunes?
Ok, credo che basti.
In “Angels”, su fondale africano, c’è pure Baaba Maal. In “Raga” i vocalizzi in stile carnatico sono affidati all’anglo indiana Najma Akthar.
Jah duetta qui e là ma ci congeda affabilmente di persona, cantando la conclusiva “Forever”.

Che dici, mi è piaciuto, questo disco?
Ricordo che allora lo ascoltai con una buona dose di stupore, e con umori altalenanti.
Poi devo aver deciso che no, visto che non si è certo consumato roteando nel lettore.
Perché questa pagina, allora?
L’altro giorno, in una recensione su DeBaser, ho letto alcune frasi:
Per i miei dischi affitto sirene spagnole dalla voce squillante per rimare cuore e amore.
Il mio pubblico merita cocktails con ombrellini colorati su tavolini tondi di giunco, contro uno sfondo di cartoncino bristol celeste e un’edera di plastica che si arrampica sul separé

E mi è tornato in mente “Take Me To God”
Così oggi l’ho riascoltato.
E ancora non so dirti se il pollice è verso o se le stelline son 4. Ancora non so se tutta l’abbondanza di colori e aromi di questa macedonia di canzoni sia un buon esempio di pop “multietnico” o il pasticcio di uno chef con troppe ricette sotto mano.
Posso dirti, però, che quando il suono del basso di Jah Wobble trova il suo spazio, è sempre un bel sentire.
Che ci trovi, sparsi, sprazzi gustosi e a loro modo geniali.
E che, da oggi, qualche altro giretto, in certi giorni un po’ così, glielo farò rifare.
Aspettando di leggere su DeBaser una recensione che mi consigli un lato diverso, e magari il disco migliore, di questo camaleonte armato di basso.


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