Questa recensione è per te, signor M**** R****.

Per te, alternativo del cazzo, che a metà anni '80, nel fiore dei tuoi anni verdi e molto molto scemi avevi i conati di vomito quando vedevi dimenarsi in costumi paracircensi - magari ospite di TeleMike - quel parruccone corvino che manco Cesare Ragazzi e quella faccia di cera nera con sopra stampigliato un sorriso a sessantaquattro denti, pensando a costui come il responsabile di quella schifezza di "Living in America", tema portante dell'ancor più orrido "Rocky IV". E chiosavi il tutto, dicendo fra te e te: "Ma che razza di pagliaccio, ‘sto James Brown. E dire che nella parte del Reverendo nei "Blues Brothers" quasi mi stava simpatico... mah..."

Per te, snob da quattro soldi, che apprezzasti a poco a poco - che diamine, andiamoci piano, eri pur sempre cresciuto con il pankrok e la niuueeeeiiiv - il rap, senza sapere che un'infinità di campionamenti su cui giravano ennemila basi hip-hop erano tutti farina nera del sacco del pagliaccio di cui sopra.

Per te, supponente falso intellettualoide, che poco tempo dopo sentisti qualche d.j. illuminato, tra un Nirvana e un Public Enemy, incendiare il dancefloor con l'implacabile fissità reiterativa - tre accordi e un cambio! - di "Sex Machine". Ti dicesti che sì, quella roba non era affatto male, che quel groove, sapiente incastro di basso e batteria aveva il suo perché (anni dopo avresti dovuto ammettere che mai ne furono creati di così efficaci); che quella chitarrina dannatamente lasciva e funky (ancora non sapevi che nello slang afroamericano "funk" era sinonimo di "umore corporale", sì proprio quegli umori, prodotto dell'attività sessuale...) e quel piano che sembrava in ventennale anticipo sull'acid-jazz...beh, non sembravano datati e sì, potevano meritare approfondimenti.

Per te, parsimonioso collezionista musicofilo, che nel 1991, quando uscì "Star Time", Altare della Patria Nera ed enciclopedico nonché definitivo compendio dell'opera di James Brown in quattro cd, ti limitasti prudentemente, nell'era pre-internet, a "noleggiarlo" (allora si poteva!) per poterlo riversare in due economiche audiocassette, così da non azzerare in un colpo solo il tuo misero budget mensile di studente-lavoratore.

Per te, e possa quel qualcuno da lassù perdonarti, che nel giro di poco tempo fosti costretto ad andare a Canossa e però - sacrosanta punizione - per potere possedere "Star Time" dovesti attendere una sua ristampa, perché nel mondo gli altri mica erano stati così fessi, se lo accattarono subito e lo mandarono presto esaurito. E magari dovendo convenire con chi ritenne questo monumentale box il più grande album di tutti i tempi, utile paradosso per dimostrare un'impossibile verità. Come definire altrimenti quasi cinque ore piene entro le quali per mezzo di settantun canzoni si riscrive mano a mano la storia dello stomp-blues e dell'errebì fiatistico, del soul indifferentemente jump o ballad, del funk screziato qua di venature jazz, là psichedeliche e rockiste, passando per la blaxpoitation nuda, cruda e senza compromessi, la graffiante proto-disco per giungere infine al rap e all'hip-hop? Cinque ore di cui non si può buttar via nemmeno un millesimo di secondo. Cinque ore che in trent'anni scarsi, da "Please please please" a "Unity", mettono insieme Robert Johnson e Louis Jordan, i Five Royals e Ray Charles, Ella Fitzgerald e Jackie Wilson, Miles Davis e Sly Stone, George Clinton e la Sugarhill Gang, Afrikaa Bambataa e Prince. Nel mezzo ci sono le pietre d'angolo che hanno edificato il mito del Padrino del Soul, inutile elencarle. Ci sono tutte. Questo per rimanere alla musica, una musica che con quattro accordi scarsi per canzone riusciva nondimeno ad aprirti il mondo. Poi c'è il resto. E in quel resto troveremo un'ineffabile grandezza capace di tradurre duro lavoro (The hardest working man in the showbusiness: su questo punto, chiedere conferma ai vari membri di Famous Flames prima e JB's poi), spettacolo, amore, sudore, sesso e carisma in un unico stile di vita. Un punto di riferimento per la nazione afroamericana, come Marthin Luther King e Cassius Clay. Ma involontario, poiché l'ex lustrascarpe della Carolina del Sud tutto può essere considerato fuorché un rivoluzionario sovvertitore del sistema. Eppure, a suo modo, fu un eroe dei suoi tempi.

Per te, che se è vero come è vero che, partendo proprio dalla conoscenza di questo signore, facesti poi della musica nera una ragione di vita, allora puoi sì finalmente gridarlo forte (I'm black and proud...): mettete questo cofanetto a fianco di Bach, Mozart, Stravinskij, Robert Johnson, Elvis, Hendrix e i Velvet. L'essenziale sta tutto lì. Il resto saranno solo dei piacevoli lussi.

 

PS: è inutile, signor M**** R****, che ti celi dietro nick altisonanti quali Imasoulman... sei solo e continuerai ad essere un povero (ex)ragazzo bianco.

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