Ipotesi (fallita) di ‘piccola recensione bonsai'.
Era un martedì pomeriggio, avevo appena spento il piccolo televisore mentale che trasmetteva immagini di caprioli nel verde valdaostano. Poi, nel tentativo di riavvolgere il nastro in rewind, e asciugare al sole di un ottimismo beota quei pochi pensieri ancora bagnati, mi ritrovai nel piccolo ma confortevole negozio musicale di fiducia. Il mio personale Rob Fleming di ‘Alta fedeltà' era impegnato più del solito con una discreta fila di clienti. Davanti avevo uno spilungone rasserenato, che si rigirava con gioia fra le mani il vinile richiesto.
L'uomo platinato efebico che, in una incredibile e plastica posa, mangiava riso cinese sotto lo sguardo severo di Mao. ‘Tin drum' dei Japan. E mi chiedevo spesso il senso di quella copertina criptica, e piena di fascino ai miei occhi: l'androginia ostentata glam del dandy futurista David Sylvian, la voce insinuante da un tranquillo e mistico ruscello di montagna c'entravano come il Natale d'agosto con la Cina. Sylvian aveva una consapevolezza partecipe nel riferirsi a scene di vita, paesaggi e folklore del Canton; e la faccia tosta di farlo con un gruppo chiamato ‘Japan'. Tipo girare un film sul ghetto ebraico di Varsavia nel ‘42 e firmarsi Leni Riefenstahl. Insomma, Nick Rhodes sembrava il cugino finto-scemo del David made-in-Japan, ma se ne stava buono all'angolo, dietro la tastierina. Non aveva idealizzato scenari esotici e lontani ( forse superficialmente in qualche video-clip, col Simon e compagnia godereccia), l'attitudine al protagonismo e una forte fascinazione per la cultura orientale non lo riguardavano certo da vicino..
‘Tin drum', sottile batteria, grande muraglia di suoni, colori e visioni tra noi e loro, Oriente e Occidente, new-wave e i primi vagiti di quello strano movimento, con gran spargimento di lacca, detto ‘new-romantics'. Il ritmo scandito, elevato dalle grandiose linee del basso-funky preciso e rotondo di Mick Karn, soffice palla di gomma che rimbalza sinuosa tra le pareti in camera dell'ascoltatore. Un pulsare ininterrotto con il percorso quadrato e geometrico della batteria di Steve Jansen (fratello del pallido Sylvian), e le tastiere di un altro pezzo da novanta qual'è Barbieri che ricamano spezie, profumi intensi di millenarie conquiste in ‘Visions of China', ‘Cantonese boy' o il nitido ricordo nel paese in festa dello strumentale ‘Canton'. Il pop d'avanguardia, sincopato e algido, di ‘Talking drum' e la sfrenata danza atmosferica nel manifesto d'apertura ‘The art of parties'. L'elettronica scheletrica, inquieta e appunto spettrale della ballad ‘Ghosts', evocata dal canto notturno di David Sylvian e un cupo synth che alza note come nebbia tra i boschi. Infine, il viaggio epico e solenne della straordinaria ‘Sons of pioneers': il suono, personale e unico, dei Japan è racchiuso tutto nelle otto tracce di ‘Tin drum'; dove si combinano mirabilmente esotismo, ritmiche funky e melodie impalpabili, eteree. Un lavoro che riuscì a migliorare stile e ispirazione dell'illustre predecessore ‘Gentlemen take polaroids', uscito l'anno prima (nel 1980) e ancora fortemente debitore del Bowie elettro\wave di ‘Low' (ma con grandi tracce quali ‘Nightporter' e la title-track).
Ecco, quella furtiva occhiata al vinile acquistato dall'essere altissimo che avevo dinanzi mi aveva portato, al solito, a divagare e intanto indagavo l'espressione soddisfatta del negoziante, per il probabile buon incasso della serata. Con quella barba folta e occhiali, sembrava il giovane Francis Coppola. Qualche chiacchiera in technicolor, un saluto ai presenti e una minuscola certezza accompagnava la mia camminata scorbutica, fuori nel traffico. Nick Rhodes, forse, non è mai stato realmente in Cina.
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