Ci sono film che non invecchieranno mai, che anche tra quarant'anni potranno essere rivisti scatenando le stesse identiche emozioni degli spettatori dei tempi della sua uscita. E "Pierrot le fou" è uno di questi.

Sebbene la differenza tra il vedere questo capolavoro di Godard nel 1965 e vederlo nel 2014 sia abissale - in quanto, tra i due periodi, ci siano quasi cinquant'anni di sperimentazioni visive, correnti, invenzioni e manifesti che ci hanno ormai abituato a tutto -  lo shock emotivo dello spettatore rimane pressoché lo stesso. 

Per raccontare l'inferno di noia, una caricatura della borghesia da salotti fatta di conversazioni vuote, di smania del consumismo e di rapporti stabili di sola facciata, a cui la società (non solo francese) si è ridotta negli anni '60, Godard rifiuta la via più semplice - quella più immediata della lentezza, del silenzio, dei tempi morti -  e accelera verso un'ordinata manifestazione del caos più selvaggio.

"Pierrot le fou" è un viaggio, un vero e proprio road movie, in cui i due personaggi scappano da un mondo ucciso dalla non-vita, dalla noia e dall'insensibilità per abbracciare l'armonia del disordine. E via con piccoli crimini, incontri grotteschi, romanticismo, litigi, colori, generi cinematografici... un disordine, un'esplosione di vita che emerge anche nel costante decostruire cinematografico godardiano, cercando più di una volta quella sospensione dell'incredulità che non permettere di credere a ciò che si sta guardando, sebbene ciò che si vede sia ben lontano dalla realtà. Un disordine che emerge anche nelle incoerenze dei personaggi, così alla ricerca della purezza della vita eppure ancora schiavi della società da cui fuggono, incapaci di vivere senza comprare qualcosa, conversando di libri, dischi, riducendo i propri dialoghi a slogan pubblicitari televisivi. 

Un "Bonnie & Clyde" coloratissimo e romanticissimo, eppure disperato, con quell'epilogo che toglie ogni possibilità di fuga (o una fuga alternativa, se vogliamo). Disperato? Forse cinico, forse persino tenero. Fatto sta che è nell'ultimissimo istante del film che diventa tangibile la contemplazione dell'armonia.  

Difficile reagire di fronte al caleidoscopio davanti al quale Godard ci inchioda, così travolti da un boom continuo di tricks, di naiveté, di rivoluzione.

Si potrebbe fare una menzione d'attore per i due attori principali: Anna Karina, deliziosa e indimenticabile femme fatale e Jean-Paul Belmondo con il suo viso da eterno strafottente sognatore, si dovrebbe anche elogiare la straordinaria fotografia di Raoul Coutard, con i suoi accostamenti geniali di colori primari. Si potrebbe discuterne a livello tecnico insomma, per poi discuterne a livello filosofico e semiotico. Si potrebbe.

"Pierrot le fou" è l'espressione massima della Nouvelle Vague, un cinema che distrugge, che inventa, che cerca vie alternative portando ad un cinema che tutt'oggi appare fresco, rivoluzionario, travolgente. Un film complesso, estatico, davanti al quale bisogna abbandonarsi, togliendosi per una volta questa necessità di smontare i film di Godard pezzo per pezzo, analizzandone ogni componente per poterne parlare a livello assoluto.

"Pierrot le fou" va discusso, ma solo in parte. Perché è uno di quei tasselli cinematografici che è necessario vivere prima che di essere quantificati

Da subire, da amare follemente. 

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