Ascoltai per la prima volta Jeff Beck durante la conclusione di un sabato sera come tanti. Sedevo nell'auto di un amico, sui sedili posteriori di una Opel Tigra, angusti come tutti i sedili posteriori di vetture sportive, ma in quel momento nulla poteva contrastare il mio senso di distensione  e abbandono mentale, neanche uno spazio piccolo e scomodo come quello; le sinapsi completamente andate in rovina, sotto l'effetto di litri di confortevole alcool, fedele "compagno" di serate senza troppi significati da elargire; lo stereo dell'auto in funzione: prima un brano dei  Depeche Mode, ma in quel contesto poca cosa, poi il brano successivo, e ci si comincia a sentire cullati da un organo in sottofondo e da un verso chitarristico continuo e univoco, quasi un lamento o un flebile sussurro, così  tenue eppure così risonante nel surreale silenzio notturno di un auto con tre sballati persi al suo interno, senza nulla da dire, completamente inondati da quella melodia così piena, intensa e onirica.

In un magico contesto di note che sembrano sbarcate all'improvviso da un altro mondo, quello dei sogni per intenderci, riemergono catene di ricordi affievoliti dal tempo, sensazioni appartenenti ad un passato lontano che ripiomba all'improvviso affermando la sua viva presenza, slanci immaginativi su probabili situazioni future, e quant'altro. Poi la chitarra comincia ad emettere suoni distorti e aggressivi, alza il tono, comincia ad urlare la sua disperazione, si fa più rabbiosa e incontrollabile sotto la spinta di un vortice intrinseco di emozioni e desideri, un moto perpetuo di nostalgie e rancori, mentre organo, basso e batteria subentrano più imponenti, ma sempre a debita distanza dall'irascibile caos emotivo dello strumento a sei corde. Un momento di  trambusto, ed infine  la chitarra torna dolcemente a donare carezze, come a dire che non esiste nulla di più accogliente di un sogno, anche quando, in alcuni momenti,  esso sembra essere un luogo claustrofobico dalla quale non si fuoriesce all'istante.

Il giorno dopo scoprii che la traccia in questione era "Cause We've Ended As Lovers" , (tra l'altro cover di un brano di Stevie Wonder)  dell'album "Blow By Blow" datato 1975, primo album nella carriera solista dell' ex-chitarrista degli Yardbirds.

Un lavoro decisamente fusion, seppure diretto con maggior concretezza verso una linea Funky-Jazz, senza rifiutare però l'irruzione in territori più Rock e Blues, dovuti alle precedenti esperienze compositive di Jeff Beck. Un disco in cui è riservato spazio a suoni frenetici ed esercizi di stile degni di nota ("Scatterbrain" ), vivaci ed  energiche composizioni  funky ("You Know What I Mean", "Constipated Duck",  "Air Blower" ),  una cover eseguita col solito personale tocco chitarristico di grande impatto ("She's A Woman",  di  John Lennon e Paul McCartney), e notevoli slanci orchestrali sotto la guida della chitarra, indiscutibile protagonista di primissimo piano ("Diamond Dust" cover di Brian Holland ).

In ultima analisi "Blow By Blow" oltre che essere un album molto significativo per il sottoscritto, mostra un sensazionale Jeff Beck nei panni di arrangiatore e direttore della sua orchestra di suoni, esaltandolo come uno dei musicisti più influenti della scena 60-70.

 

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