Ogni dieci anni nasce un fiore, certe volte qualcuno in più. Parliamo di cantautorato del gentil sesso, tanto per chiarire le idee e restringere il campo.

Ebbene, gli anni '80 hanno visto la sbocciatura, è proprio il caso di dirlo, della fiabesca Kate Bush, non a caso scoperta e proiettata su palcoscenici internazionali da Gilmour; i '90 furono fornai di deliziose fragranze quali Bjork e la prima Tori Amos; che sia il nuovo millennio il trampolino di lancio (macchè, la catapulta) della Newsom, altra terrificante creaturina dalla voce pericolosa quanto il canto d'una sirena?
Ovviamente si, altrimenti questo preambolo non avrebbe senso.

Sia ben chiaro: queste pronunciate non sono le uniche stelle che brillano nel firmamento del cantautorato o, più semplicemente, "delle belle voci". Ci sarebbe anche la giovanissima Anja Plaschg (alias Soap&Skin) o quella magia vocale della Elizabeth Fraser (Cocteau Twins) o ancora la splendida Jesy Fortino (alias Tiny Vipers). Ma a noi, a me, almeno al momento, interessa solo parlare della talentuosa cantautrice arpista statunitense: Joanna Newsom. Ora lo ripeto: Joanna Newsom. Scolpitevelo bene in mente il suo nome, ne vale davvero la pena.
Lei è anche piuttosto carina, inutile negarlo. Ma il suo è un tipo di bellezza che, accostata alla voce, suscita "solo" adorazione. Niente di più appropriato dinanzi a questa dea del canto.
Ok ok ora parlo dell'album, basta che non mi si dia del sessista.

"Ys" è uno dei migliori dischi del nuovo millennio, vi dovrebbe bastare questo.
Me ne fotto se esistono millemila altri generi, millemila altri gruppi, millemila altri artisti.
Ah no, non vi basta? Stronzi. Ma in fondo avete ragione.

Bene, quest'opera d'arte è composta da solo cinque brani, pochi sì, ma uno più bello dell'altro e tutti vocalmente e orchestralmente inarrivabili.

"Emily" rompe il ghiaccio, anzi, il mondo: dietro una struttura orchestrale che non fa altro che seguire tutte le variazioni sul tema (musicale e testuale) della Newsom, emerge come una ginestra leopardiana la voce di lei, cosi angelica eppure cosi attaccata alla terra, a un timbro più umano, imperfetto diremmo ma proprio per questo più unico e raro. Il brano si contraddistingue per i numerosi e imprevedibili cambiamenti vocali, oltre che sinfonici, che vanno dalla ninnananna ai lamenti introversi dell'artista passando per i suoi improvvisi urli gutturali.
La sua è una voce capace di passare dagli acuti più eterei alle dilatazioni più profonde e intime. Non ultima l'arpa: l'unico strumento in grado di riflettere la sua voce, paradossalmente, "senza stonare".

Cosa accade nel frattempo dentro di noi? Una tempesta emozionale che ci prosciuga d'ogni forza.

Viene poi "Monkey & Bear", ballata folk (come folk è tutto il disco) che ci porta direttamente in una fiaba dai tratti medioevali: storia di un amore impossibile tra una scimmia e un orso, qui trasformata in assoluta e perfetta realtà.
Ecco, è proprio questo il tratto distintivo della Newsom: le sue non sono canzoni, sono storie narrate con il trasporto e l'emotività di un medioevale menestrello.
L'ossatura strumentale rivela in questo caso una linearità di base assolutamente non semplicistica, come potrebbe essere facilmente accostabile; una scenografia senza acidi colori o fronzoli di sorta in un film che è già di per sè articolato.

Di seguito, "Sawdust & Diamonds".
Cade un velo sull'orchestra. Non un violino fuori posto, nessuna viola, nessun mandolino. Il loro è un silenzio colmo di reverenzialità e di sacralità. E' in atto un dialogo privato tra la Newsom e la sua arpa, suonata a mo' di piano. La voce, in questo caso, assume le pose di un'intensa e dolce recitazione, caldissima nella verbalità.

E' il momento di "Only Skin", mia personale perla dell'intero album.
Come in "Emily", la melodia si forma disintegrandosi e costruendosi di volta in volta in quello che sembra un gioco di specchi fatto di frenate e folli ripartenze vocali.
Via via prendono corpo e sostanza una varietà di strumenti impressionante: dal violino al flauto e alla fisarmonica, arrivando infine al banjo e alle percussioni.
Per l'appunto la fine, il duetto con Bill Callahan che mette in luce le rispettive differenze timbriche e distanze di gola, che chiude il brano in un crescendo acuto (di lei) pregno di pathos e armoniosità. Le voci dei due sono due farfalle che si rincorrono in un prato di margherite.
Da brividi.

Infine "Cosmia", ultimo, fantastico viaggio folkloristico al centro del brano formato racconto.
Semplicemente eccezionale il sussulto strumentale di metà canzone, tra svolazzi vocali, frenetici rincorsi con l'arpa e sostenute ritmiche della fisarmonica e di altri strumenti dell'orchestra.
E' l'ennesima, inutile, conferma delle capacità teatrali e narrative di questa straordinaria folksinger californiana.

Cosa resta alla fine di questo viaggio? Lo sguardo della stessa Newsom che dalla copertina sembra osservarci con l'indecifrabilità e l'enigmiticità di un'anacronistica cantastorie.

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