Come successo ultimamente a diversi altri miti musicali degli anni settanta, Joe Cocker è passato a miglior vita alle soglie della vecchiaia senza riuscire ad attraversarla, e magari godersela; gli eccessi alcolici e l’assunzione reiterata di altre poco salutari sostanze hanno presentato alfine il conto allo scoccare dei settant’anni, dopotutto neanche pochi dato il soggetto. D’altronde rockstar drogatissime e sbevazzoni patentati come Keith Richards, Eric Clapton, Jimmy Page, Pete Townshend e tanti altri stanno invece riuscendo nell’ardua impresa di diventare vecchi a tutti gli effetti… quindi bravi e fortunati a loro e pace all’anima del povero Joe.

Si può dire che Cocker debba la maggior parte di celebrità e successo sostanzialmente al suo contributo ad un paio di film epocali (partecipazioni della durata totale di non più di dieci-dodici minuti!), vale a dire “9 settimane e 1/2” e “Woodstock”. A riguardo della prima pellicola ci si riferisce ovviamente alla cover della cadenzata “You Can Leave Your Hat On” di Randy Newman, godibile a tutto volume in colonna sonora nella scena che vede Kim Basinger spogliarellista a favore esclusivo del suo boyfriend Rourke, in una situazione sexy dopotutto abbastanza soft, ma che ha comunque fatto epoca.

Il secondo momento magico e fortunatissimo di Cocker vede non solo la musica ma anche la sua persona fisicamente presente: mi riferisco ancor più intuitivamente alla sua partecipazione al Festival di Woodstock del 1969 ed all’inclusione nell’omonimo film della performance di questa mirabile cover dei Beatles. La versione di studio della cover era uscita qualche mese prima su di un album dal titolo eponimo, in definitiva il suo esordio discografico. La originaria brillante filastrocca McCartneyana, affidata alla voce modesta ma cordiale del suo batterista Ringo, era stata sottoposta a un restyling decisamente efficace, con la cadenza rivoluzionata da 4/4 a 3/4 per far da base ritmica ad un arrangiamento rock blues che vedeva svettare la chitarra di Jimmy Page, all’epoca coinvolto in uno dei suoi ultimi ingaggi come musicista di studio prima di assemblare i Led Zeppelin e passare a ben altre cose. Altro strumento in primo piano nell’arrangiamento è l’organo Hammond manovrato da Tommy Eyre, subito memorabile nel lungo arpeggio iniziale in assolvenza e poi costantemente importante lungo il pezzo. Decisivo infine il ruolo dato alle tre coriste di colore, capaci di iniettare la potenza e l’evocatività del gospel nella base hard rock blues, ottimamente sospinta dall’eccellente batterista dei Procol Harum B.J. Wilson.

Le biografie narrano che l’ambizioso Page colse l’occasione di questa comune session per il disco di Cocker per chiedere allo stesso Wilson se gli andasse di mettere su un gruppo con lui, il bassista e multistrumentista John Paul Jones e Keith Reid alla voce… La Storia ha voluto che Wilson rinunciasse e che, per quanto riguarda il cantante, pure Reid si tirasse alfine indietro, consigliando nel contempo a Page di contattare un tizio dalle parti di Birmingham a nome Robert Plant il quale poi, saputo che il posto di batterista era ancora vacante, si portò appresso il suo vicino di casa ed amicone John Bonham…

Tornando a Cocker e a questa epocale reinterpretazione della canzone beatlesiana, essa resta uno dei migliori esempi di valore aggiunto dato ad un brano altrui: la performance veramente col cuore in mano del cantante di Sheffield, il sapiente e potente stravolgimento della primigenea canzonetta pop in qualcosa di autenticamente intenso e coinvolgente, l’arrangiamento impeccabile e le belle voci in risposta all’animosa raucedine del titolare (a proposito: secondo me a Woodstock il produttore Kramer fece rifare i cori in studio, buttando via le piste che riprendevano i due tizi della Grease Band al microfono: nella colonna sonora quelle loro voci suonano troppo pulite, potenti, precise, efficaci e… femminili rispetto alla situazione, alle tecniche di ripresa live di quel tempo, alle… loro facce!), tutto concorre a rendere epocale questo brano e, per una volta, a defraudare i Beatles della memoria storica a riguardo di una loro creazione. Nell’Arca della Gloria americana in effetti ci hanno messo questa versione, non quella di Sgt. Pepper, giustamente.

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