Io questa recensione non la volevo scrivere. Troppo ingombrante l’artista per un profano di musica come me. John Cale è un vero genio, innovatore e maestro nella sua arte e nel suo mestiere. Non ho le conoscenze e l'intelletto per discutere del suo lavoro - o recensire questo ultimo album - con l’autorità e la serietà che si addice al suo talento e alla sua cultura.
Poi accade che mio compare mi chiama, mentre sto per imbarcarmi sul volo che mi riporta a Brescia dopo un bellissimo week end trascorso con famiglia ed amici e, in lacrime, mi dice che è venuto a mancare T., 57 anni, portato via da un infarto fulminante. In una logica di incremento esponenziale, più vado avanti negli anni e più devo trovare la forza per reggere questi momenti. Ma questa volta è un dolore troppo grande, T. era uno di noi, uno di quei 10 che puoi non vedere per anni e chiedergli di buttarsi nel fuoco con te senza paura di restare solo. T. non era un grande esperto di musica, ma mi voleva bene. Un pomeriggio, sul finire degli ’80, mi venne a prendere a casa per fumare insieme e, conoscendo i miei gusti dell’epoca (Sophisti-pop), mette su la cassetta degli “Swing Out Sister”: “so che hai gli scaghddiuni fini” (denti fragili. Figurativamente di persona con gusti ricercati). Era fatto così, ironico e generoso.
Meccanicamente, nel tentativo di esorcizzare il momento, durante il volo e anche dopo in auto, continuo ad ascoltare l’ultimo lavoro del genio gallese senza soluzione di continuità e ne ricavo conforto. Grazie John, non mi importa del lavoro speso negli anni, dello studio della musica, della sperimentazione, di tutto quello che hai dovuto fare per poter pubblicare, ad 82 anni, questo lavoro. Mi importa solo che c’è. Che adesso ci sono queste nuove, tredici, splendide canzoni, dai testi pesanti annegati in un’atmosfera giocosa, condita da synth, rumore, groove hip-hop e ruggiti vintage dei Velvet Underground.
Del resto, se ne ce fosse stato bisogno, ho già avuto modo di constatare che il prodotto di un genio può essere apprezzato anche da chi non ha i mezzi per comprendere appieno e, guarda caso, proprio ascoltando, insieme a mia moglie, un brano dei Velvet: “The Murder Mystery”. Ero convinto mi chiedesse di saltare la traccia e, invece, dopo un ascolto rapito, mi dice: “cazzo che figata!!!”. Sinceramente, come fan dei Velvet sono sempre stato più affine alla visione di Lou Reed che di John Cale. Dei lavori da solista del gallese amo quelli che la critica musicale etichetta quali accessibili: “Paris 1919”, “Fear”, e, soprattutto, “Fragments of a Rainy Season”, l’unplugged ante litteram, pubblicato ben prima che questa prova sonora divenisse passo obbligato per qualsiasi musicista o band. Ma, ogni nuovo lavoro che il nostro ha pubblicato, ho almeno provato ad ascoltarlo.
Avevo, quindi, già ascoltato il precedente “Mercy” che, come questo, nasce dalle oltre 80 canzoni scritte dal grande vecchio nel periodo del lockdown imposto dalla pandemia e, seppur mi era piaciuto, non mi aveva stregato come invece ha fatto questo “POPtical Illusion” grazie alla sua capacità di “vedere la luce del sole attraverso la pioggia” (“Edge Of Reason)”.
Come in Mercy, si percepisce tutta la rabbia dell’artista incazzato “per la distruzione programmata da capitalisti senza scrupoli a danno delle meraviglie di questo mondo e della bontà della gente comune” (dal materiale di promozione dell’album). Del resto si sa, non c’è niente di meglio di un’epoca sconvolgente come quella degli ultimi anni per fornire ad un artista del calibro di Cale il propellente necessario per lanciare prodotti incendiari come gli ultimi due lavori.
Ma, sia nei testi sia nella musica, in “POPtical Illusion” si percepisce una vena ironica non presente in Mercy. Il nichilismo del lavoro del 2023 che induce all’astrazione, cede il passo alla vena sarcastica che suggerisce di non mollare. L’urgenza comunicativa di un ultraottantenne consapevole di aver perso così tanti amici, colleghi e collaboratori nel corso degli ultimi anni e che ha deciso di documentare il passare del tempo e gli esiti involutivi di uno sviluppo solo temporale. 13 tracce che musicalmente si muovono, prevalentemente, in ambito hip-hop, electro-soul e ambient-pop ma che non disdegnano incursioni nell’avan-tgarde, sulle quali la voce unica, grave e impassibile di Cale si diletta a lanciare strali (le destre che bruciano le loro biblioteche in “Company Commander”) contro i (pre)potenti, ma che, allo stesso tempo, indulge benevolmente nei confronti dell’umanità succube invitandola a ripartire dai propri sbagli “Fai in modo che ti accada nel futuro, una vita migliore rispetto al tuo passato, evita tutti gli errori che abbiamo fatto quando eravamo più giovani” ("Davies And Wales").
Quindi, grazie John. E grazie al DEB, che mi ha fatto scoprire che scrivere serve più a me che a chi mi legge.
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