"Il blues nella sua vera forma è il riflesso della vita di un uomo e deriva da esperienze personali, buone e cattive. Riconosco che ho involontariamente ferito tante persone, ho lasciato degli amici, e ora l'unica cosa per cui vivere è il blues"

John Mayall, 1967

Prendete John Mayall, uno tra i personaggi più importanti ed influenti portati alla ribalta dalla british blues invasion nella seconda metà degli anni '60, quando non era uno sbarbatello qualunque con ambizioni da classifica, ma un ultratrentenne con un folle amore per il blues.

Prendete John Mayall, ed associatelo ai vocaboli coerenza, passione e costanza.

Dal '64, anno del suo (acerbo) esordio, sono passati 46 anni, in cui il Nostro ha pubblicato una infinità di album, che se gli vai a chiedere il numero preciso forse non lo sa nemmeno lui. Quel che è certo è che, almeno fino al 1980, ogni anno vede come minimo una nuova pubblicazione, che sia registrata in studio o live poco importa, il blues è bello a prescindere. Ma poi se vai a guardare la sua discografia successiva non è che sia centellinata, anzi.

Ecco, se prendete John Mayall, vedete come le parole che scriveva nel '67 non erano campate in aria, ma potrebbe averle scritte ieri, magari sul retro dell'ultimo "Tough", pubblicato appena qualche mese fa.

La grandezza di un musicista la vedi soprattutto sulla lunga distanza, se un disco viene ripubblicato su cd a distanza di 30 o 40 anni dalla sua uscita, se un disco vende ancora, qualcosa vorrà dire. Mayall ha prodotto una manciata di capolavori (uno su tutti, "Bluesbreakers with Eric Clapton") e una lunga serie di ottimi lavori, tutti regolarmente stampati su cd dalle case discografiche.

Tra questi uno dei più gustosi è sicuramente "A Hard Road", pubblicato a nome John Mayall & The Bluesbreakers, sigla inaugurata col precedente album in cui spadroneggiava Eric Clapton, fresco di addio dagli Yardbirds. Mayall aveva trovato in lui un perfetto partner per gli standard blues che andavano a comporre il repertorio della band, ed era rimasto spiazzato dalla mossa del chitarrista di abbandonare dopo il successo dell'album per andare a far parte dei futuri Cream. Ma Mayall non è uomo che si scompone, e rimpiazza Slowhand con l'allora sconosciuto Peter Green per il proseguo del tour a supporto del disco: il pubblico lo accoglie tiepidamente, deluso dall'assenza di Clapton, ma Mayall permette al ragazzo di crescere al suo fianco, portandolo in studio per la registrazione del singolo "Looking Back/So Many Roads" e confermandolo poi per le sessioni del Long Playing che andrà sotto il nome di "A Hard Road".

L'album è soltanto uno dei numerosissimi progetti che il leader porta avanti: sforna in qualche mese singoli, concerti, disco e perfino un Ep con il bluesman americano Paul Butterfield. "A Hard Road" vede la luce nel febbraio '67, composto per gran parte da composizioni originali inframezzate da qualche cover, andando in controtendenza rispetto alla precedente release, in cui i pezzi originali erano appena quattro. Come se non bastasse la release è impreziosita da due pezzi a firma Green: "The Same Way" e (soprattutto) "The Supernatural" sono due ottimi episodi che già all'epoca fecero ricredere i detrattori della validità del nuovo Bluesbreaker. "The Supernatural", in accordo col pensiero dello stesso Mayall, è probabilmente la vetta più alta raggiunta dall'Lp, uno strumentale che regala 3 minuti intensissimi sporcati non poco di psichedelia.

Le cover sono una più bella dell'altra, "You Don't Love Me" a firma Cobbs fotografa la prima performance canora di Green, "Dust My Blues" è una infuocata versione rockeggiante del classico di Elmore James "Dust My Broom", mentre la strumentale "The Stumble" e la splendida ballata blues "Someday After A While (You'll Be Sorry)" sono entrambe tratte dal repertorio di Freddie King, scritte in collaborazione con Sonny Thompson. Anche sul fronte originali a nome Mayall sono tanti gli episodi convincenti: su tutti la title track, "Another Kinda Love" "Top Of The Hill", "Hit The Highway" e "Leaping Christine". Ma non è tutto oro quel che luccica. Accanto a grandi pezzi troviamo infatti episodi come "There's Always Work" che francamente poco hanno da spartire con la maestria di John Mayall.

Colpa forse dei troppi impegni, ed anche della brevità delle composizioni (14 tracce in 37 minuti) "A Hard Road" non riesce a raggiungere lo status di capolavoro; rimane comunque un album notevole suonato da una band coesa nonostante i pochi mesi a disposizione per trovare l'affiatamento. Rispetto a "Bluesbreakers with Eric Clapton" l'unico superstite è infatti il bassista John McVie, così oltre all'avvicendamento Clapton-Green alla sei corde avviene anche quello tra Hughie Flint e Ansley Dunbar (futuro sessionman per Frank Zappa, Lou Reed, David Bowie, Jeff Beck e tanti altri ancora) alle percussioni.

Arricchito in alcuni frangenti della spinta dei fiati (ma solo su qualche brano del disco, e in ogni caso soltanto in studio, assicurerà Mayall) "A Hard Road" è il terzo album del bluesman (il secondo con i Bluesbreakers) che conferma la band su altissimi livelli: i Bluesbreakers (con formazione mutata) daranno vita ancora a due Lp prima di essere sciolti dal leader, che continuerà la carriera come solista. I loro dischi sono stati riproposti in versione deluxe e continuano a vendere a distanza di più di quarant'anni dalla loro uscita nonostante la crisi del mercato discografico.

Niente male.

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