"Confessioni di un esterofilo convinto"
Brutta bestia l'esterofilia. Ti rende culturalmente snob e pericolosamente simile ad un qualsiasi bifolco che vede tutti i "foresti" come delinquenti. A dirla tutta bisognerebbe evitare di formarsi idee/opinioni legate ad un concetto inutile e vetusto come quello della nazionalità, oramai tranquillamente relegabile nel settore "discorsi da bar", come il calcio. Nel mio piccolo basterebbe solo che non mi facessero cagare così tanti aspetti dell'odierna Italia e della sua popolazione, e potrei finalmente liberarmi dal paraocchi del "bello-perchè-viene-da-fuori".
Per ora una piccola mano me la sta dando l'ultimo parto degli emiliani Julie's Haircut, una piccola rivoluzione nella mia risicata discografia italiana. Cagati sempre poco nel passato, avevo notato una brusca svolta verso lidi kraut-psichedelici durante un concerto di un paio di anni or sono ma non approfondii. Poi, caso vuole che mi venisse regalato il doppio (bellissimo) vinile di "Our Secret Ceremony", e apriti cielo!
Vuoi per una insana voglia di redenzione nazionalista, vuoi per il fascino contestuale dell'oggetto vinile, vuoi per l'effettiva qualità e quantità dell'offerta, il disco sta monopolizzando i miei ascolti da un mese. Cosa sempre più rara, ça va sans dire.
Diviso in due parti (Sermons e Liturgy), "Our Secret Ceremony" segna un punto di non ritorno nel percorso musicale dei Julie's. Alcuni lo potrebbero considerare pretenzioso, nella sua mastodontica durata, e ad essere obbiettivo un paio di lungaggini ci sono, ma sta proprio lì il bello e il fulcro del disco. Lasciarsi andare senza star troppo dietro alla forma canzone o al minutaggio, suonare quello che ci piace, come ci piace. Prendere o lasciare. Io più che prendere, sono stato "preso".
In linea generale Sermons contiene le tracce "normali", contraddistinte da ottime ritmiche ipnotiche alla NEU! ("The Shadow, Our Home", gran pezzo tra l'altro), groove cavernosi di basso ("The Devil In Kate Moss"), visioni sintetiche reminiscenti i Blonde Redhead ("Mountain Tea Traders"). Menzione d'onore per il lungo trip per chitarra, Wurlitzer e altre chincaglierie analogiche di "Origins", e per la meravigliosa "Mean Affair", contesa fra andamento alla "Funhouse" (la canzone), e lo svolazzo free jazz di organo e sax.
Decisamente più libera e riflessiva la parte liturgica. Un rischioso tributo ad un modo desueto di fare psichedelia, centrato tutto come è su tastiere, organo e Moog, ma che finisce per ammaliare, proprio perchè abbastanza atipico, e, se non originale, di sicuro coraggioso. Partendo dalla gommosa "La macchina universale", passando per il salmodiare ipnotico di "Hidden Channels Of The Mind" e il jazz-prog sotto metadone di "Breakfast With The Lobster", fino ad arrrivare all'intimista "They Came To Me", è una lenta discesa nei recessi della mente, non necessariamente oscura né ostentatamente "avant", ma naturalmente psichedelica, nell'accezione più ampia possibile del termine.
Non so a me ricordano mostruosamente i Motorpsycho di metà '90, spero che Giulia lo prenda come un complimento...
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