Se hai le suole di vento succede che viaggi. Se succede che viaggi non ti senti mai a casa. Se hai il blues nella voce succede che canti. Se succede che canti lo fai senza sforzo.

Stiamo parlando, è chiaro, di veleno e antidoto, ovvero di irrequietezza e poesia, cose che in genere vanno di pari passo.

Stiamo parlando di Karen Dalton.

E Karen Dalton era, soprattutto, un'idealista. Il blues non va sprecato, non bisogna farne scempio. Deve sgorgare, fluire, senza essere ingabbiato o formalizzato, pena la perdita della magia.

I dischi non sono che pezzi di plastica con dentro la voce di un fantasma. I tour poi non parliamone nemmeno, si suona per gli amici o dove ti senti a casa. Anche se poi a casa, l'abbiam detto, Karen non si sentiva mai.

Certo, a noi un simile modo di pensare può sembrare assurdo, oppure troppo romantico. Ma Karen Dalton era un'anima antica ed era, oltre che follemente libera, del tutto senza filtri e senza pelle.

Il suo rapporto con la musica era puro istinto, senza alcun dover essere, senza compiti a casa. Chiamatelo talento, se volete. Chiamatela vocazione. Ma avere talento, avere vocazione non significa avere una bella voce. Significa essere una voce.

Non solo, Karen Dalton, come tutti gli artisti sovrannaturali, era straordinaria soprattutto se lasciata a se stessa, ovvero voce e chitarra o voce e banjo. Fa mica niente se li non sembra Billie Holiday, se non ci sono coloriture jazzy o propellente soul errebi.

Ascoltando i dischi postumi (antichi live, vecchie registrazioni casalinghe) non solo si capisce molto molto bene la sua ritrosia rispetto all'entrare in studio, ma vien pure spontaneo darle ragione.

Anche se poi, sia chiaro, noi, noi che non siamo anime antiche, non ringrazieremo mai abbastanza coloro che l'han convinta, persino ricorrendo all'inganno, a registrare i suoi soli due album ufficiali. Del resto non potremmo non farlo, sono capolavori senza tempo.

Ma adesso è tempo di parlare della sua voce....

Misteriosa, elusiva, assorta in qualcosa che non ci riguarda. Una lontana rugiada di malinconia che si posa appena sul piccolo fiore dell'ascolto.

Familiare, ardente, ipnotica, intenta a prender possesso dei nostri cuori. Un miele vischioso e ambrato che di quel fiore è premessa e conseguenza.

Una voce che vive in una dicotomia lancinante di vicinanza lontananza, presenza/assenza, sottile penetrazione e definitivo autismo. Ecco perché sembra sempre sul punto di rompersi, spezzarsi.

Anche se poi non perde mai la misura oppure ne ha una tutta sua: un soffio intermittente fatto di impercettibili clamori, trilli acuti di uccellino che penetrano sotto pelle, legnetti scoppiettanti sotto una brace ormai spenta.

Il tutto in un'atmosfera ultraterrena dove semplici canzoni da ABC dell'anima (ovvero il folk e il blues), virano, attraverso una sorta di enigma in chiave jazz (ovvero la distanza) verso qualcosa di inaudito. Questo almeno per quanto riguarda il primo disco.

Che il secondo disco è un'altra faccenda.

Li il suono, arricchendosi di dolcezza soul, robustezza errebi e certe atmosfere tipiche del cantautorato anni 70, si fa più pastoso e più caldo.

La voce, più ruvida e ferrosa, lambisce, in modo spirituale e fantasmatico, un territorio emotivo quasi alla Janis Joplin, Anche se poi la misura, beh, la misura è sempre quella.

Non solo, è un disco che avrebbe voluto essere commerciale. E, in effetti,

contiene alcuni brani che, anche se non smaccatamente radio friendly, avrebbero potuto persino essere dei successi. Solo che poi, ecco, non è andata esattamente così.

In ogni caso, commerciale o no, è un disco bellissimo e contiene le sue tre canzoni più belle: “Something in our mind”, “Katie cruel” e “Same old man”

“Something in our mind”: un dolce e spontaneo lasciarsi andare del suono con solo il cantato a dar strappi, Carica di soul, le briglie allentate eppur sciolte, la voce bruciata e riarsa. E in più, a corredo, un violino straziato.

“Katie cruel” e “Same old man”, ovvero la tradizione che diventa trance abbeverandosi alle sacre fonti con l'anima spaccata in due. E una voce che a descriverla non ci provo proprio, diciamo solo che è quella più giusta per cantare una cosa come: “Se io fossi dove vorrei allora certo non vorrei essere dove sono”.

Ecco per le cinque (se non sei) stelle basterebbero questi tre gioielli, ma anche il resto merita, merita eccome. Fa niente se il vestito cucitole addosso a volte non sembra proprio il più adatto per lei.

Non si può comunque non accennare all'elegia sospesa di “Are you leaving for the country”, l'ultimo brano del disco, un vero e proprio commiato in dissolvenza.

Si parla di un ritorno alla terra, a quella casetta senza luce elettrica ne acqua corrente dove aveva vissuto fino a poco tempo prima. Oh Karen, avresti dovuto farlo. immagino le cavalcate, il banjo suonato in veranda e tu di nuovo bellissima come nelle foto da ragazza.

Invece ti mandarono in Europa, in tour con Carlos Santana. Fuggisti dopo poche date. Poi la solita storia: niente più musica, dipendenza, abbruttimento, eccetera eccetera eccetera...

Sei morta nei primi novanta dimenticata da tutti.

Se hai le suole di vento succede che viaggi. Se succede che viaggi non ti senti mai a casa. Se hai il blues nella voce succede che canti. Se succede che canti lo fai senza sforzo.

Ma quando non canti più quelle suole si fanno di pietra...

Un bacio da innamorati...

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