Secondo alcune teorie, il 2042 è l’anno nel quale le minoranze etniche diventeranno la maggioranza della popolazione statunitense.

E “2042” è anche il titolo della quarta avventura solista del frontman dei Bloc Party, Kele Okereke, che arriva a due anni dal precedente “Fatherland” e segna un passaggio fondamentale nella carriera del trentottenne musicista di Liverpool.

“2042” è infatti un lavoro molto ambizioso e personale, e segna un cambio di passo netto rispetto al folk intimo e minimale della precedente prova in studio: allora il cambio fu ispirato dalla nascita della primogenita Savannah, oggi invece è la situazione politica e sociale inglese (ed in generale quella europea e mondiale) a dare un’ulteriore spinta creativa ad Okereke, che firma l’album più provocatorio e politico della sua carriera.

La dance rock intinta nell’afrobeat del ficcante singolo “Jungle Bunny” apre un disco variegato, starcolmo di stili diversi, che sopperisce ad una inevitabile disomogeneità di fondo con una qualità di scrittura che il buon Kele non esprimeva da diversi anni a questa parte. Si sente che il tocco molto personale dei brani ha esaltato la creatività del frontman albionico, che firma una serie di pezzi davvero notevoli, ognuno diverso dall’altro ma con una forte identità stilistica di fondo.

Le strutture sonore evolvono e si schiudono, spesso all’interno dello stesso pezzo, basti pensare alla splendida “Ceiling Games”, che parte come una bossa per poi esplodere in una sferzata di chitarra distorta ed un corollario di oscuri synth. Ma se disco politico deve essere, disco politico sia: è così che nasce una perla assoluta come “Let England Burn”, invettiva pesantemente debitrice di certe cose più “grette” di Kanye West (“Black Skinhead”), acida e rabbiosa come non mai, e l’R&B classico di “St Kaepernick Wept” e “Secrets West 29th”.

C’è spazio anche per il rock, come nel glam del secondo singolo “Between Me And My Maker”, con una lunga coda introspettiva che porta il pezzo a sei minuti di durata, e per un’assoluta bomba princiana fino al midollo come “My Business”, assoluta legnata in stile “Black Sweat” del genietto di Minneapolis, appena sporcata da un’acida chitarra distorta. Non mancano omaggi alle origini nigeriane di Kele (“Cyril’s Blood”) ed una dolce dedica al compagno nella delicata “Natural Hair”.

Okereke decide quindi di fotografare cosa voglia dire essere nero, omosessuale ed artista nell’Inghilterra del 2019. Lo fa con una lucidità invidiabile, confezionando uno dei migliori lavori della sua carriera. Sorpresa davvero piacevolissima.

Brano migliore: My Business

Carico i commenti... con calma