Poco tempo fa - il 18 febbraio, per la precisione - erano cinque anni dacché Kevin Ayers ci lasciava. Da un punto di vista commemorativo, il confronto tra la sua scomparsa e quella, ad esempio, del suo amico e sodale Syd Barrett è improponibile (semplice constatazione che nulla vuole togliere al Cappellaio). Il fatto che un così grande artista e imprescindibile scopritore di talenti - Mike Oldfield in primis, Andy Summers, tra i tanti – sia rimasto nella memoria collettiva meno di quanto sarebbe lecito fa riflettere. E pensare che in vita sua dozzine di grandi nomi collaborarono con lui e che la sua influenza fu enorme (chiedere a Bryan Ferry, please). Essere divenuto negli anni un nome quasi d'élite, anche ammesso che non gliene sia mai importato nulla, gli rende in ogni modo poca giustizia.

Autentico esempio di genio e sregolatezza, lascia dei Soft Machine profumanti di successo dopo appena un album nel 1968, principalmente perché, oltre a volere maggiore libertà, è disgustato dal modo in cui il loro manager Chas Chandler sta gestendo l'altro suo “protegé” Jimi Hendrix e teme che la stessa sorte possa toccare a breve anche a lui. Nonostante i suoi ormai ex-compagni Softs continuino ad essere suoi amici e ad aiutarlo ad incidere, Kevin vuole fare tutto di testa sua e portare avanti la sua carriera senza rendere conto a nessuno. Purtroppo, va detto, questa sua ostinazione un tantino gli si ritorce contro: impagabile ed eclettico scrittore di canzoni e melodie e al contempo sperimentatore impulsivo e a volte dissennato, nonostante realizzi dei dischi complessivamente molto belli non riuscirà mai a ripetere la perfetta magnificenza di quel capolavoro totale che è il suo debutto in proprio “Joy Of A Toy” (1969), un mirabile esempio di equilibrio tra melodia, scanzonatezza e sperimentazione. Anarchico e capriccioso (solo il cielo sa quante tournée ha cancellato in vita sua), dotato di una versatilità talmente estrema da rasentare talvolta la schizofrenia, pur con le sue bizze e bizzarrie, anzi, spesso in virtù di esse, ha scritto della grande musica. Manca, Kevin Ayers, e vale assolutamente la pena riscoprirlo. Il mio consiglio è di recuperare il suo ottimo quinto album “The Confessions Of Dr. Dream And Other Stories” (1974), il suo disco più bello dopo “Joy Of A Toy”, a pari merito forse con il terzo “Whatevershebringswesing” del '71.

Piuttosto lungi dall'essere coeso (non che sia necessariamente un male), ha nondimeno una certa logica nell'essere diviso in una prima facciata “americana”, in cui per l'appunto Ayers si misura a suo modo con generi tipicamente a stelle e strisce, e una seconda più tradizionalmente “inglese” e progressive, dominata com'è da una suite in quattro atti. Ricco di ospiti illustri che a nominarne uno si farebbe un torto agli altri, dispendioso in sede di produzione, poliedrico e ambizioso.

La prima parte offre tre delle migliori canzoni da lui mai scritte: il funk ballabile di Day By Day, che difficilmente un bianco e per giunta inglese avrebbe potuto rendere più nero; Didn't Feel Lonely Till I Thought Of You, uno dei più bei pezzi southern rock mai sentiti – e voglio essere ripetitivo: Kevin Ayers è inglese -, con un assolo di chitarra da manuale di Ollie Halsall, anch'egli inglesissimo e anch'egli mai troppo compianto; Everybody's Sometime And Some People's All The Time Blues, slow blues da erezione che invece ospita alla chitarra il vecchio compagno e ormai superstar Mike Oldfield. Dunque un omaggio agli Stati Uniti, che tuttavia si fa parodia proprio nei due momenti più brevi, ovvero nelle buffe rivisitazioni di country-western e Mississippi blues in See You Later e Ballbearing Blues, dimostrazioni della sua innata verve ironica e stravagante. Spazio, infine, sempre su questo lato ad un astuto omaggio alle sue origini nella mini-suite It Begins With A Blessing/Once I Awakened/But It Ends With A Curse, nientemeno che un rifacimento di quella Why Are We Sleeping dal primo dei Soft Machine e portata in dote da solista nei suoi concerti, qui divenuta una monumentale fusione di psichedelia, prog, jazz (ancora un altro suo ex-compagno al sax, Lol Coxhill, non uno qualunque), hard rock e soul.

La suite che domina la seconda è un altro crogiolo di stili, che parte da vaghe suggestioni da “Tubular Bells” di Mike Oldfield - comunque un suo erede, va ribadito - del primo atto (con Nico ospite che affianca Kevin alla voce), passa nelle parti centrali in un territorio da qualche parte tra Canterbury, i Roxy Music (altro caso di paternità stilistica rivendicata?) e i Pink Floyd e approda infine alla lugubre marcia Doctor Dream Theme, il momento forse migliore. Chiude l'album con una punta di amara nostalgia il breve space-folk di Two Goes Into Four, che suggella di fatto l'ultimo album della sua fase migliore, nonché un periodo magico della sua carriera che purtroppo non si ripeterà più.

Il mio più sincero augurio è che questo scritto possa riportare un po' di attenzione nei confronti di un artista che, a mio modesto avviso, non avrebbe bisogno di presentazioni. Fatelo vostro.

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