"Non dirmi che non posso perdere quello che non ho, perché posso perdere tutto quello che voglio".

"E io voglio te".

Più chiaro di così...

Per la serie: chi se lo ricorda? Un colpo di testa in piena regola, quell'esordio. Né più né meno. Ovvero, l'esordio di tale K.H. (chi era costui...?). Impresario, faccendiere, fac-totum, abile frequentatore di ambienti vagamente ambigui a spasso tra il Bronx delle origini e la Manhattan musicale che nell'81 (più) contava. Un Piazzolla depravato, lui che i dischi di Piazzolla li aveva girati e rigirati senza tregua e ormai Piazzolla poteva dirlo di conoscerlo quasi come le sue suole, sangue portoricano e un ancora incerto futuro artistico (?) da conguero di bassifondi malfamati, Cuba e le Antille viste dalla metropoli. La versione tra il perverso e il lunatico di Ray Barretto, per chi ha la buona volontà di ricordarsi quella buon'anima di Ray Barretto, ché oramai non se lo fila più nessuno tranne qualche vecchia enciclopedia di jazz rimasta a ingoiare polvere sugli scaffali di una qualsiasi libreria. Solo che Ray, quando voleva un batterista, ti chiamava Steve Gadd. Lui, Kip, no; ma come, vuoi la tua bella figa intrigante fusione di jazz/latin/salsa/mozambique e non mi chiami a suonare uno come Steve Gadd, che su certe cose ti giggioneggia ad occhi chiusi...? No. Meglio Anton Fier. E mi sono spiegato, o almeno penso. E al basso uno tra Bill Laswell e Jamalaadeen Tacuma, naturale. E alla chitarra... no, lascia stare ché ho già capito, eccolo lì eccolo lì proprio colui che mi aspettavo in un disco del genere... quel rachitico occhialuto psicolabile con la passione per la musica brasileira, anzi è lui stesso mezzo brasileiro, quello scherzo di uomo che a N.Y. conoscono tutti per aver suonato in quel gruppo dove c'era anche quella giapponese alta un metro e 20 che suonava la batteria o almeno ci provava, mettiamola così - e lui "suonava" la chitarra, ma virgolettiamo ben bene perché "suonare" sarebbe già una parola grossa, più che suonarla la stuprava e ne traeva qualcosa che non si era mai sentito e somigliava ai guaiti di un randagio bastonato o alle ultime parole di una lavatrice inceppata che sta per tirare le cuoia. E tanto per fare più chic, all'occhialuto aggiungiamo pure quell'altro pazzo di un inglese che suonava con gli Enrico Mucca e fece quel disco epocale con la calza della befana in copertina, ah come dimenticarlo. Ma c'è dell'altro.

E che altro vuoi? Voglio un saxalto e un saxtenore, innanzitutto. Prima uno e poi l'altro? Si. Si, ma anche no. Si, ma anche tutti e due insieme. E voglio che a soffiare dentro quel tenore ci venga tu, proprio tu, tu che di nome fai Teo e di cognome fai Macero, e di jazz ne sai qualcosa. Ma non mi basta neanche questo, a meno che non ti tiri dietro pure il soprano di Dave Liebman, e allora cominciamo a ragionare. E pure qualche musicista di Rio e dintorni, ma a quello ci avrà già pensato l'occhialuto, ché di surdos e cose del genere se ne intende. E poi? Poi voglio una donna. Non una donna qualunque, ché una donna qualunque posso averla quando dove e come voglio, il resto sono chiacchiere. Voglio una tipo questa Lisa Herman, che mi blateri 'ste quattro boiate che ho buttato giù, se insensate o moralmente eccepibili fa nulla. Poi voglio una donna, anzi ne voglio due. Voglio anche Carla Bley, e qui punto in alto, punto in alto perché solo una con quel suo accento francese mi sa rendere questa "India Song" formato-night qualcosa di grande, di speciale, di indimenticabile. Di irripetibile? Anche.

Ma come ho detto all'inizio, questo era solo un esordio.

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