Se diamo uno sguardo alla nostra collezione di dischi, ne individueremo alcuni che suscitano in noi delle sensazioni particolari. Mi riferisco a quelle opere che hanno contribuito a definire i nostri gusti musicali e alle quali siamo da sempre legati, al di là del loro reale valore artistico.
Questi album, oltre a occupare i nostri stereo per giorni interi, ci hanno fatto accedere a mondi fino ad allora sconosciuti, permettendoci di ampliare i nostri orizzonti e accumulare conoscenza. In altri termini, di crescere.
Con il passare del tempo abbiamo cambiato il nostro giudizio nei loro confronti, sostituendo un’analisi ragionata a un’ingenua venerazione, tuttavia una cosa è certa: senza l’imput fornitoci da essi non saremmo andati oltre e avremmo evitato di addentrarci in continenti inesplorati, la cui frequentazione ci ha permesso di conoscere meglio gli altri e soprattutto noi stessi, con le nostre inclinazioni e personalissime sensibilità.
È senza dubbio difficile scegliere dei titoli e inserirli in un’ipotetica classifica, a causa della diversità delle nostre preferenze e dei criteri utilizzati da ognuno di noi per redigerla. Personalmente, posso affermare con sicurezza che nella mia lista un posto speciale sarebbe riservato a Quarantunesimo parallelo, esordio del trio partenopeo La Famiglia.
Pubblicato nel lontano 1998, Quarantunesimo parallelo è infatti il primo CD hip-hop acquistato da un imberbe adolescente verso la fine del secolo scorso, rigorosamente “pezzotto”, come si usava all’epoca (non me ne vogliano gli autori, i quali, in vita loro, avranno comprato qualche compact disc o audiocassetta masterizzata, magari reperiti da un mitico rivenditore di Piazza Dante o della Pignasecca).
Quell’LP dalla copertina essenziale, raffigurante tre personaggi piazzati davanti a un mappamondo, con il nome del gruppo formato da lettere ritagliate da una rivista e quel titolo, Quarantunesimo parallelo, a indicare il legame tra il capoluogo campano e New York, Mecca della cultura hip-hop, ha accompagnato il sottoscritto per decenni e continua ad accompagnarlo ancora oggi, nell’epoca dello streaming selvaggio e degli ascolti rapidi, fugaci. Contribuendo a stabilire un amore il quale, pur essendosi espresso in maniera distaccata e tramite veloci frequentazioni della scena della propria città (senza contare i live: The Beatnuts, Tony Touch, Jungle Brothers, etc...), è tuttora vivo, ben presente.
Oltre a quest’importanza privata, il debutto di Polo, Sha One e DJ Simi ne ha un’altra storica, essendo uno dei primissimi LP quasi interamente rappati in dialetto, tratto distintivo dell’hip-hop che di lì in avanti verrà prodotto a Napoli e, al tempo stesso, suo grande limite (mi si permetta un parere personale).
Il napoletano possiede in effetti una grande musicalità, la quale, unita alla presenza di molte parole con finali tronche, lo rende particolarmente adatto al genere. C’è però il rovescio della medaglia, perché l’ostinazione a voler realizzare rime in dialetto ha impedito una diffusione capillare dei lavori provenienti dalla Città del Sole, creando un ostacolo linguistico che nemmeno la presenza di testi tradotti, come in questo caso, è riuscita ad arginare (in realtà La Famiglia, i Co’ Sang e Clementino hanno ottenuto una discreta visibilità a livello nazionale, senza però raggiungere i successo dei vari Club Dogo o Fabri Fibra).
Ciò detto, è pur vero che la scelta di rappare in vernacolo ha contribuito a creare un’identità precisa, lontana da un semplice scopiazzamento delle sonorità d’oltreoceano. Ed è proprio questo l’obiettivo che La Famiglia cerca di conseguire in Quarantunesimo parallelo, cioè sottolineare il legame con la Grande Mela, dunque con le origini, e al tempo stesso rimarcare le differenze, sia dal punto di vista verbale che da quello musicale.
Sgomberiamo fin da subito il campo da equivoci: Sha One e Polo sono due MC notevoli, in grado di incastrare rime come blocchi nel Tetris e dotati di ottime capacità di scrittura, già dimostrate in alcune collaborazioni che avevano puntato i riflettori sulle loro abilità liriche (mi riferisco a “Solo fumo” di Neffa, “Mazz’ e panell” di Chief & Soci ed “E uno, due, tre e quattro”, realizzata insieme al meneghino DJ Enzo).
I due graffiano il microfono con aggressività o vi sussurrano parole delicate e la loro performance risplende sia nei pezzi incentrati sul cazzeggio (lo spassoso sfottò di “Prrr!”) che in quelli votati all’ego trip e all’autocelebrazione (la devastante “Mast” oppure “Schia’o 5”), passando per brani caratterizzati da uno storytelling cupo, notturno (“Fuje”, “Notte”, quest’ultima impreziosita dal featuring di Chief), fino ad arrivare a “Odissea”, toccante dedica alla propria città che, a mio avviso, raggiunge delle vette poetiche paragonabili a quelle di “Napule è” di Pino Daniele (“Si vuò capì Napule, tecchete ‘e chiave int’e mane e si trase/È inferno e paraviso, sacro e profano, lotta tra Abele e Caino/Chi va facenno ‘e vote ‘e sante e chi ancora addumanna ‘a Sibilla sorte e destino”. Peccato per la presenza un po’ superflua di Enzo Gragnaniello nel videoclip).
Passando all’aspetto sonoro, le cose si fanno più delicate e meritano un discorso a parte. I beat sono interamente realizzati da DJ Simi, figura di spicco della scena musicale locale, noto per aver fatto parte degli Angels of Love, un collettivo che ha organizzato innumerevoli serate house e ha scritto la storia della club culture vesuviana.
Le basi di Simi sono molto semplici e non rivelano una particolare ricerca stilistica, a volte sono arricchite da strumenti a corda e cantati a metà strada tra il soul e la tradizione napoletana che rischiano di affossarle in qualche stereotipo di troppo (ad esempio in “Femmena”), in definitiva fanno il loro lavoro, ma risultano un po’ spoglie, vuote, non convincendo del tutto (soprattutto nella seconda parte del disco) e passando a tratti inosservate rispetto all’eccellente prestazione dei due MC del gruppo.
Per questo e altri motivi Quarantunesimo parallelo non raggiunge il massimo dei voti, ma resta comunque un’ottima prova, un disco pionieristico che, pur con qualche difetto, permette da un lato di stabilire un asse Napoli - New York e dall’altro dimostra che fare hip-hop in Italia senza scimmiottare gli americani sia una cosa possibile e soprattutto doverosa.
Concludo questa pagina con un’annotazione: oggi quell’adolescente menzionato all’inizio ha qualche anno in più, troppi bulbi piliferi in meno sul cranio e una manciata a ombreggiargli il viso, ma quando ascolta “Odissea” si emoziona quasi come la prima volta. Ed è un buon segno, indubbiamente.
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Altre recensioni
Di nzùcobr
Quann l’hip hop a Napule nun era ‘nu pezzotto r’America, quann l’hip hop era ‘o rap e so sentev pur chi nun ha mai tenut nient a spartere co’ moviment.
‘Pe chi vò capì st’universo.. ‘Napule distrugge e crea’.