A dispetto del nome (Lantlôs = homeless) e delle origini semi-black tutt'altro che accattivanti, sembra proprio che Markus Siegenhort, l'unica mente della band in questione, abbia finalmente ritrovato la strada di casa.

In un certo senso, quelli che avevano visto nel precedente Agape (2011) un germoglio tanto fragile quanto meraviglioso, oltre che foriero di chissà quali altre intuizioni all'interno del fertile campo post-black, potranno dirsi in parte delusi dalla brusca e ingiustificata svolta stilistica dell'entità Lantlôs; una situazione sensibilmente diversa da quella dei cuginetti francesi Alcest, destinati invece, col recente Shelter, a scarnificare (anzi, diluire) il proprio sound a favore di un dream-pop rivelatosi a mio avviso insipido e povero di idee. Ma la dichiarazione d'intenti del tedesco Markus, a partire dal congedo del pur sempre bravo Neige al microfono (smentendo gli ottusi che ritenevano i Lantlôs "quell'altra band di Neige"), pare essere stata frutto di un'urgenza improvvisa, nonché di una consapevolezza genuina: "questa band è mia, le poche regole le detto solo io, e siccome mi sono stufato del metallo nero, della sua negatività imperante e dei suoi umori adolescenziali, ho voglia di sdraiarmi in un bel bosco, fumare un po' di erba cazzeggiando con gli amici e boh, fare quel che mi viene di fare." (Parole sue.)

Il risultato è, in tutti i sensi, uno splendore. Non solo i paragoni con Alcest sono poco appropriati, sebbene in entrambi i casi si sia verificato un allontanamento dal metal tout court; ma c'è chi ha anche azzardato accostare Melting Sun ai Deafheaven, solamente in virtù dei colori profumosi in copertina e del sole che campeggia nel titolo. Se nel caso di Alcest è la pesantezza dei suoni a fare una gran bella differenza, oltre che un songwriting di gran lunga più creativo, nel secondo siamo completamente fuori strada (e continente), considerato che in questo capolavoro (storcete pure il naso, ma per me lo è) non c'è traccia né di certa teen angst, né di furiosi blast beats, tanto meno di urla inintelligibili - occhio a non fraintendermi, che i Deafheaven li adoro, checché ne dica la sdegnosa comunità black-metallara.

Per chi ha avuto modo di seguire la band in presa diretta sulla sua pagina personale, la gestazione di questo Melting Sun, uscito quest'anno a maggio, è stata alquanto travagliata: registrato e annunciato a neanche un anno di distanza da Agape, la data di pubblicazione e tutti i dettagli dell'album sono stati rimandati più e più volte per oltre un anno, perdendo tempo tra un progetto solista buono ma di scarso interesse (LowCityRain, una specie di sfogo synth-dark-pop anni '80) e cazzeggi vari. La spiegazione ha tardato un po' ad arrivare: Markus, essendo poco soddisfatto del missaggio, si è rimboccato le maniche per curare i suoni nei minimi dettagli e dare più spessore alla propria creatura. La cosa mi è sembrata evidente al (fatidico) momento di ascoltare il brano d'anteprima, Melting Sun I: Azure Chimes, presentato a febbraio: stratificazioni a iosa, chitarre sfavillanti, distorsioni imponenti ma avvolgenti, eleganti divagazioni strumentali. E tanta, tanta melodia.

L'addio alle soluzioni "estreme" sembra definitivo. Al vuoto nero pece dei dischi precedenti si sono sostituiti mille colori rassicuranti (come i sottotitoli dei brani lasciano intendere); le esplosioni blackeggianti si sono trasformate in calde pennellate post-metal-rock-quellocheè; ma soprattutto, lo scream di Neige è stato spodestato dall'ugola espressiva, seppure ancora acerba, di Herr Siegenhort. Per alcuni si è trattato di una perdita di identità. Per chi scrive si tratta di un traguardo importante, un lavoro maturo che ha dalla sua parte un songwriting audace, un'attenzione per i dettagli fuori dal comune, e anche un'ingenuità di fondo che fa di tutto ciò una scelta sincera, credibile. E la cifra stilistica è rimasta pressoché immutata; altro che perdita di identità.

La sopracitata introduzione di Melting Sun I è subito divenuta uno dei pezzoni dell'anno: placida ed euforica al contempo, nella prima metà si costruisce su un'accattivante forma canzone ma, dal quarto minuto, di punto in bianco si getta in una coda strumentale a dir poco trascinante (affiora qui il fantasma degli Isis), smaterializzandosi infine in un orgasmico muro shoegaze. Solo questo brano basterebbe a zittire tutti gli scettici convinti che la musica, per emozionare, debba essere per forza di cose originale.

Melting Sun II: Cherry Quartz sembra volerci cullare dolcemente durante il primo minuto, ma la muscolatura metal farà presto sentire il suo peso, inebriando l'aria e ricordandoci che i Lantlôs saranno pure diventati un po' frou-frou, in pace col mondo e via dicendo, ma non hanno affatto dimenticato gli attributi maschili su in solaio (capito, Neige?). Il brano, come il resto dell'album, è cangiante, imponente, vivo; difficile cogliere tutte le sue sfumature con un paio di ascolti. Dopo una seconda digressione strumentale costellata di sussurri, fruscii e un assolo squisito, irrompe di nuovo l'ondata di distorsioni, appena stemperata dal cantato pulito di Markus. Certo, la sua voce un po' nasale (nei toni più alti mi ricorda un certo Aaron Turner) non sarà il massimo della tecnica e di tanto in tanto sembra avere dei mancamenti, ma tutto sommato fa bene il suo lavoro e aggiunge valore a un album prima di tutto strumentale, che fa delle texture il suo vero punto di forza. I testi visionari, del resto, sono scritti di getto senza badare troppo al senso compiuto, suggellando l'assoluta spontaneità della musica.

Melting Sun III: Aquamarine Towers, forse quella cresciuta di più con gli ascolti, viene aperta in fade-in da un lungo arpeggio ipnotico e arricchita di volta in volta da cori estatici, tastiere e un pizzico di psichedelia, oltre che una sezione ritmica potente ma sempre adattata ai toni placidi dell'album. Poche le parole pronunciate dalla voce ora profonda di Markus: "I've seen you, I've been through the sun"; il brano si discioglie quindi in un flusso proteiforme, ondivago, meraviglioso, e nei suoi otto minuti (ne meriterebbe molti di più) pare protendersi all'infinito verso una catarsi lontanissima, mai raggiunta. Il rapimento è totale.

Spetta a Melting Sun IV: Jade Fields concludere la parte più metallica dell'album, e la catarsi arriva eccome: alle atmosfere celestiali e al vociare indistinto di bambini segue un riffing monocromo e stra-droppato, mentre i canti + controcanti di Markus e soci vengono troncati da un ultimo sfogo strumentale in cui le chitarre ruggiscono e troneggiano su una batteria ammattita. L'ultimo assolo, di un'epicità che dà i brividi, fa calare il sipario sfumando nel misterioso intermezzo di Melting Sun V: Oneironaut, che per qualche minuto ci traghetterà nella nebbia, verso gli abissi della nostra (in)coscienza...

...E qui, ogni volta che irrompono gli arpeggi dilatati di Melting Sun VI: Golden Mind, mi viene un mezzo infarto perché sembra che in studio sia entrato nientepopodimeno che sua maestà Robin Guthrie. Ma sul display il nome Lantlôs rimane, non sono mica risorti i Cocteau Twins (sigh!), e i dubbi vengono completamente dissipati quando è sempre Markus, e non la Fraser, ad intonare laconicamente questa ninna nanna eterea all'ennesima potenza. Le coordinate sono quindi quelle di un puro dream-pop/shoegaze, sulla falsa riga dell'ultimo Alcest, ma la classe non è semplice acqua e infatti quello in cui stiamo nuotando è l'utero materno.

Markus fa nuovamente rewind, rivive il bambino cristallizzato nella memoria, beve il nettare d'oro e inspira i fumi violacei di chissà quale mondo fantastico: emerge ancora il tema dell'infanzia più remota, ma ora non c'è spazio per il drappo di inquietudine che ricopriva Agape. Melting Sun VI: Golden Mind si chiude con lo stesso rumorismo con cui Intrauterin apriva il precedente album, un'orgia di feedback non più presagio di sofferenza, ma estasi assoluta, luce abbacinante, nonché zenit soverchiante di questo sole che brucia la mente e scioglie il cuore, portandoci per qualche istante in un posto sconosciuto e allo stesso tempo così familiare.

Carico i commenti... con calma