Con questa, contando anche quelle di certi miei amici fantasmi che oramai non frequento più’, fan cento recensioni. Per festeggiare pubblico un racconto ispirato a una canzone che fa parte del mio imprinting musicale: “Gioco di bimba” delle Orme.

Certe pagine di progressive italiano, essendo state tra i miei primi ascolti, mi son rimaste nel cuore pur essendo presto passato a preferire altri generi musicali.

Questo pezzo, che fu un grande successo commerciale, mi accompagna poi da quando avevo tipo otto/nove anni e rappresenta, quindi, una specie di iniziazione. Ai miei occhi, e so bene di dire una corbelleria, ha quasi lo stesso valore di certe ballate dei Crimson, “Moonchild” su tutte. Del resto anche in “”Moonchild” prende corpo una figura femminile da sogno.

E’ una canzone dal testo fiabesco e ingenuo che sottende però qualcos’altro, forse la fine dell’infanzia, forse una iniziazione sessuale, forse (alcuni dicevano) addirittura uno stupro. Soprattutto però nel suo lirismo, diciamolo pure, da due soldi è una canzone misteriosa e magica.

Che poi con lirismo da due soldi non voglio affatto intendere qualcosa di negativo, anzi. Certe cose del mio amato Nick Drake per esempio afferiscono di sicuro a una categoria estetica delle stesso genere. Tutti sanno però che quei due soldi spesso trovano un orto dei miracoli più generoso di quello che negò a Pinocchio la ricchezza. Il nostro cuore e la nostra anima per fortuna non hanno pregiudizi estetici.

Devo dire poi che molto fa, oltre alla bellezza della melodia, la qualità della voce di Aldo Tagliapietra, cantante magari non dotatissimo, ma capace, ogni tanto, di portarci la dove tutto è mistero e bellezza. O forse, semplicemente, non è che la voce di un momento irripetibile della tua infanzia.

E ora spazio al racconto. Si intitola “Bastardena” (che nel mio dialetto significa ragazzina) e spero vi piaccia.

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“Chi se ne frega del mare” diceva sempre la gigantessa Renata e forse pensava al mare la prima volta. E il mare, la prima volta, fu la nonna ad accompagnarla. Quel giorno, tutte allegre, presero la corriera mentre faceva ancora buio e così arrivarono presto, talmente presto che sulla sabbia non c’era nessuno. La luce era così bianca che Renata e la nonna chiusero gli occhi, poi li riaprirono, poi li richiusero. E tutto quell’aprire e chiudere non faceva che rafforzare l’incanto come se ogni volta il mondo emergesse da un sogno.

Giunta l’ora del caffelatte si diressero al barettino. E il barettino, chissà come, era quasi più magico della spiaggia. Sedute al tavolino, infatti, ci si sentiva come regine. Qualcuno mise una monetina. E una voce che era più magica del barettino (che era più magico della spiaggia) e che era più bianca di quella luce (che adesso però non era più bianca) parlava come in una favola:

“Come d’incanto lei s’alza di notte, cammina in silenzio con gli occhi ancor chiusi”.

Non era una favola però, era solo una canzone e lei e la nonna se ne stettero tutta la mattina in quel bar dando fondo a tutti i loro spiccioli per riascoltarla. Il mare perse clamorosamente d’importanza, anche se era il mare e anche se era la prima volta.

Contava solo la bambina di quella canzone e quella bambina aveva il “volto di latte” e “raggi di luna tra i folti capelli”. Contava anche che quella voce, magica e bianca, era triste e allo stesso tempo non lo era, perché, appunto, era magica e bianca e quel che è magico e bianco non può essere triste.

Ma soprattutto contava che quella bambina era Lei, era Renata... ed era anche la nonna. Che loro due, insieme, non erano mai state soltanto una piccola vecchia rugosa e una bambina cresciuta troppo,

Che la nonna, a differenza degli altri adulti, non aveva mai tentato di soffocare la sua fantasia, considerandola anzi, con grande saggezza, un dono assai prezioso. Dono che lei ricambiava con una specie di grazia dolcissima e rustica appena appena velata di stramberia.

Così il semplice andare avanti della vita di tutti i giorni, che era quasi una musica di gesti sempre uguali, si era arricchito della fantasia sfrenata di una bambina che inventava storie sui fiori e sulle piante, sui sassi e sugli uccelli e, per farla breve, su quasi ogni cosa su cui posava gli occhi.

Era come se la nonna suonasse coi suoi antichissimi gesti un magico flauto da due soldi e la bambina cantasse il suo stupore di essere al mondo. Che se musica e parole possono bastare a se stesse è solo quando il loro incontro avviene che si aprono davvero le porte. Sul bastarsi poi, sul trovare in se stessi un ritmo vitale, la nonna aveva finito per mostrare alla piccola Renata l'esempio più perfetto. Rimasta vedova era riuscita non solo ad accettare senza traumi la sua condizione di solitudine, ma a considerarla addirittura un privilegio.

Quando la nonna morì lei aveva quattordici anni. A quell'epoca era già mostruosa e i suoi compagni di scuola erano, letteralmente, la metà di lei. Nessuno però osava prenderla in giro. Una volta la nonna le aveva detto “io mando avanti la baracca cercando di non farmi venire l'amaro in bocca. Se poi un po' d'amaro c'è lo stesso mi basta guardarti per far venire il dolce.” Ora, si sa, tutti mandano avanti la baracca, persino i ragazzini, e il dolce che non impasta la bocca è raro. So di un tipo, un personaggio un po' pazzo,, che se qualcuno si avvicinava cominciando a parlare con frasi troppo sdolcinate, si metteva a sputare come per mandare via dalla bocca quell'orrendo sapore persin peggio dell'amaro.

Ma il dolce di Renata era proprio miele di quello buono e appena un cucchiaino, che di più smaga anche quello. “Te ci propri com e mil, bastardena, un cuciarin ed mil bon” le aveva detto un'altra volta la nonna e non serve che ve la traduca questa frase, vero? Si, tutti mandano avanti la baracca e allora perché dir di no a quel cucchiaino? Nessuno infatti riusciva a farlo, nè i bulletti più impenitenti, nè le aspiranti miss mondo del primo banco.

Ma stavamo parlando della morte della nonna ed ecco quello che avrebbe voluto fare Renata: seppellirla nell'aia e prendere il suo posto, cioè vivere da sola li in campagna. Sarebbe stata benissimo in grado di farlo, ma aveva appunto solo quattordici anni e non importava certo che dalla nonna avesse appreso tutte le virtù pratiche, come non importava nemmeno la sua assoluta indipendenza psichica, il fatto di essere già allora quella che sarebbe sempre stata e cioè la fanciulla dei sassi e delle cincisquiglie. Precocità per precocità, c'era poi anche l'amore, che lei era una donna ormai e questo non lo sapeva nessuno. Si, era una donna e aveva perso la sua verginità due anni prima.

Era il pomeriggio della vigilia di natale (di due anni prima, appunto) e la nonna stava guardando con soddisfazione il bellissimo presepe che aveva costruito lei stessa, modellando tutte le statuine. Era una passione che aveva fin da bambina e che ancora coltivava, dedicandole quasi tutto il tempo libero. Col passare degli anni era diventato enorme e occupava, nei giorni del Natale, tutto un lato della grande cucina. Alcune statuine erano davvero vecchissime e quando le ritirava fuori, le sembrava di ritrovare dei vecchi amici e così ci parlava, raccontando soprattutto di quel cucchiaino di miele che era il suo più grande orgoglio. Quella volta si mise a chiacchierare col suonatore di piffero:

“Dio benedica le carezze di quei due ragazzi...”

“Ma la fanciulla cucchiaino non è un po' piccola per queste cose?”

“Piccola? Ma se è grande come una quercia!!!”

“Si, ma ha dodici anni.”

“E allora, parli proprio tu che eri già vecchio quando ti ho costruito!!! Dovresti essere decrepito e invece sei ancora qui a suonare quel piffero!!!”

“E allora?”

“Allora se lei è troppo giovane per certe cose, tu sei troppo vecchio per certe altre, eppure le fai lo stesso. E poi...”

“E poi?”

“Poi se è normale che una statuina del presepe parli, che c'è di strano in una fanciulla che fa l'amore?”

La statuina sorrise. Poi riprese a suonare il piffero. Intanto al piano di sopra Big mama scopriva tutte le più dolci carezze.

Ma come era possibile che una vecchia contadina accettasse una cosa del genere? Eh cari lettori, cosa non può la libertà di giudizio!!! E cosa la consuetudine di un rapporto speciale che lega due persone negli anni, abituandole alla magia dei sentieri impervi e non battuti? Ah lei e Renata sapevano benissimo quando era il momento di togliere le scarpette da ballo per mettere gli anfibi e lo sapevano perché si erano scambievolmente fatte dono di coraggio e fantasia. Ed era grazie a questo che la nonna poteva vedere ben oltre il buon senso comune, un mostro talmente forte che non si limitava a parlarle con la voce di una statuina del presepe e usava altre mille fetide bocche per sussurrare ignominie. E mica le bocche degli altri visto che nessuno per fortuna sapeva nulla. Ma le bocche della paura, le bocche del “se qualcuno sapesse”. L'unica cosa che poteva fare, quando quella paura si trasformava in panico, era un bel respiro, che nulla sarebbe servito spiegare che quella ragazzina, forte come una quercia e indipendente più di qualsiasi altro essere femminile di quello stupido paese, era ormai una donna.

Il giorno dei funerali della nonna per Renata fu davvero insulso e vuoto. Che ci azzeccava suo padre? Che ci azzeccavano quei poveri e stupidi parenti? Non avrebbero dovuto essere li o forse non avrebbe dovuto esserci lei, che il suo funerale privato l'aveva già fatto. Pochi istanti dopo la morte, infatti, facendo attenzione a non farsi vedere da nessuno, aveva tagliato alla nonna una piccola ciocca di capelli, aveva preso la statuina del suonatore di piffero ed era corsa via verso quello che, tra i tanti luoghi magici che c'erano attorno alla casa, era forse il più magico di tutti, ovvero la grande quercia vicino alla ferrovia.

Perché si, ci passava la ferrovia da quelle parti e i treni erano stati tante volte protagonisti delle sue fantasticherie infantili. In una di queste aveva immaginato che uno dei passeggeri del treno del primo pomeriggio fosse il piccolo giocoliere dagli occhi di ghiaccio, così delle volte andava a salutarlo, spesso e volentieri accompagnata dalla nonna. E aveva continuato a farlo per anni fino a che un piccolo giocoliere apparve davvero, anche se non aveva gli occhi di ghiaccio. E non era, a ben pensarci, nemmeno un giocoliere. Era, a essere precisi, uno studente di vent'anni che quasi ogni giorno andava a Bologna, all'università, e aveva notato quella piccola enorme fanciulla che ogni tanto era in compagnia di una vecchietta. Ne fu subito colpito e mai avrebbe potuto immaginare che potesse avere soltanto dodici anni. Per farla breve, era lui che stava facendo l'amore con Renata, mentre la nonna parlava con il suonatore di piffero.

Arrivata alla grande quercia vicino alla ferrovia, cominciò a scavare vicino alle radici, sotterrò la ciocca di capelli e la statuina, ricoprì la piccola fossa e disse: “Nonna, nonna, se vuoi vai in cielo, se no vai un po' dove ti pare. Dovessi sentirti sola fatti viva, che io non ho paura dei fantasmi.”

Poi si mise a cantare :“come d’incanto lei s’alza di notte, cammina in silenzio con gli occhi ancor chiusi”…

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