Con la pubblicazione postuma di “Coda” nel 1982 Jimmy Page il leader dei Led Zeppelin aveva raschiato il fondo del barile, chiudendo gli obblighi contrattuali con l’etichetta discografica e fornendo ai fans un’ultima razione di materiale del loro amato gruppo.
Con questa uscita del 2008, tripla, la suddetta razione diventa abbuffata, passando i brani da otto a ventitré, quelli originari del 1982 (alcuni di essi leggermente ritoccati) più altri quindici. Facile distinguere le due versioni di “Coda”: in questa variante Deluxe la copertina posteriore da chiara passa a nera, conservando la stessa grafica in stile neon.
Ma come già fu a suo tempo per l’album “ristretto”, non c’è da strabiliare: se ascoltando l’originale “Coda” si era preso atto come non ci fosse alcuna grossa perla ancora nel cassetto dei Led Zeppelin, questa uscita ribadisce come tutte le magnificenze create dalla band siano debitamente immortalate nei loro otto prestigiosi dischi in studio usciti dal 1969 al 1979. Altro che raschiare il barile… qui Page si è messo col cacciavite a scorticare i rimasugli fra una doga e l’altra!
Trattasi di Led Zeppelin, perciò ogni inedito o versione alternativa sono comunque benvenuti. Personalmente accetterei anche di ascoltare una registrazione di questi quattro mentre, ubriachi, tentano di coverizzare “Besame Mucho” e subito dopo “Garota de Ipanema”, basta che Bonham vi pesti tamburi e piatti come suo solito e gli altri di conseguenza… ma in sunto e ad essere obiettivi il brodo è lungo, lunghissimo qui.
Accenno innanzitutto che il mosaico delle otto canzoni dell’originale “Coda” è composto da uno scarto del terzo album, uno del quinto, tre dell’ottavo. Dopodiché abbiamo una versione dal vivo di una cover blues presente nel primo album, un’ulteriore cover blues dal vivo però mai registrata in studio e, a quanto pare e chissà perché, con il baccano del pubblico sottratto dal mix, ed infine un divertissement di Bonham e Page, fatto di sola batteria ed effetti elettronici. Questi otto brani costituiscono logicamente il contenuto del primo dei tre cd, o lp, dell’opera in questione.
Fra le quindici canzoni spalmate negli altri due dischi il gioiello è “Hey Hey What Can I Do”, spacciata come a suo tempo retro del 45 giri “Immigrant Song”, 1970. Boh, io ce l’avevo quel disco e sul retro, anzi sul lato A, ci stava “Bron-Y-Our Stomp”… ma forse era una pubblicazione riservata all’Italia. Tanto è vero che mi capitava di sentire “Hey Hey…” quando di notte Raidue si collegava alla filodiffusione e già allora mi dolevo che non fosse stata inserita in Led Zeppelin III. E’ vero che avrebbe ulteriormente aumentato la quota di episodi acustici di quel disco, ma innanzitutto chissenefrega… i Led erano fortissimi anche unplugged, e poi il brano è molto più bello sia di “Hats Off to Roy Harper” che di “Out on the Tiles”… gli episodi meno forti del terzo album.
“Hey Hey...” è un episodio semi acustico in genuino stile Led Zeppelin, ovvero un country blues con Page all’acustica e Jones al mandolino, che procede tranquillo nelle strofe finché all’ultimo verso Plant passa all’ottava superiore sparando il suo leggendario semi falsetto miagolante strapotente. Gli altri tre allora gli fanno coro (per una volta) nel ritornello, dove tutto si potenzia ed è ancora una volta la grande musica dei giovani Zeppelin, con un finale in ulteriore crescendo. Io avrei messo la canzone in chiusura della prima facciata di Led Zepp III, con “Out on the Tiles” spostata a conclusione del disco, rimuovendo quella distorta ode a Roy Harper che così veniva utile per questo disco di ritagli e frattaglie.
I restanti quattordici brani si possono dividere, in ordine decrescente d’interesse, anzitutto in n.4 inediti: il primo "Baby Come On Home” è uno scarto dall’album di esordio del ’69, ma non avrebbe sfigurato in quella sede, magari ridimensionando la conclusiva “How Many More Times” ad un minutaggio più normale per trovargli posto. Avrebbe ulteriormente aumentato la varietà dell’album, dato che è un rhythm&blues piuttosto ortodosso con pianoforte, organo e per loro insoliti cori gospel fatti in casa.
“Sugar Mama” invece è meno riuscita, essendo l’ennesimo rock blues “rubato” ai neri, in quei tempi iniziali in cui c’era ancor poca trippa per gatti in repertorio: l'espropriato di turno è Sonny Boy Willliamson, ma Page alla slide e Plant alla sua strepitosa voce da ventenne si fanno perdonare anche stavolta; siamo comunque sempre nel ’68 ed alle sessioni per il primo album. Passando a “Traveling Riverside Blues” di Robert Johnson, si può dire che sia la cosa migliore presente dopo “Hey Hey…”, con Page alla slide “arcaica” con suono scavante e feeling immenso; è una registrazione del 1969 in uno studio BBC, per uno di quei loro programmi alla radio con del pubblico in sala. “St.Tristan Sword” per finire è poco più che una jam session, uno strumentale del 1970 con chitarra basso e batteria belli compatti, sul quale evidentemente non si era trovata una linea vocale convincente.
Poi vi sono un paio di registrazioni… “indiane”: siamo nel 1972, Page e Plant vanno in vacanza a Bombay e registrano in loco due dei motivi più orientaleggianti del repertorio, prelevati uno dal terzo ed uno dal quarto album, accompagnati da una fantomatica Bombay Orchestra: in realtà a quanto si sente solo un pugno di musicisti, due o tre percussionisti più qualche piffero e violino. “Four Sticks” fra l’altro, assente il Bonham con le sue famose quattro bacchette, è giustamente ribattezzata “Four Hands” e comunque i due Zep presenti manco vi suonano, lasciando all’orchestra indiana l’intera esecuzione strumentale. Anche “Friends” è solo strumentale, ma qui Page è all’acustica a guidare le danze.
Tocca ora a qualche stuzzicante demo, con tanto di titolo provvisorio o working title come dicono gli inglesi. Il primo che si incontra è “If It Keeps On Running” che altro non è che l’abbozzo di “When the Levee Breaks”; certo ancora non tellurica come su Led Zeppelin IV perché la batteria di Bonham è ripresa in studio, non già in quella storica detonante maniera nell’androne di una villa di campagna. Inoltre quel che si sente da Plant è una cosiddetta voce guida, un’ottava sotto e in veste dimessa. La struttura di questa futura meraviglia (ricordo che ne è autrice la tostissima blueswoman di colore Memphis Minnie) è comunque quella, anche se più swingante e molto meno implacabile.
“Desire” è invece il demo di “The Wanton Song”, e siamo nel 1974 alle sessioni di “Physical Graffiti”. E’ abbastanza simile alla versione definitiva, le mancano le sovraincisioni ed una produzione più potente, però Bonham già tira come un rimorchiatore ed ascoltarlo è sempre un orgasmo. C’è poi, messo come finale, l’interessante demo della fascinosa “In the Light”, sempre 1974 e sempre Graffiti. Il suo working title è “Everybody Makes It Through” e l’interesse sta nel fatto che Plant in questa fase doveva ancora lavorarci parecchio, alle sue parti. Le strofe infatti non esistono, il cantante vi bofonchia sopra una linea melodica raffazzonata, del tutto distante da quella che poi sarà, oltretutto inventandosi le parole. Però il ritornello “In the Liiiiiight!…” è già al suo posto come anche il lungo, straniante, memorabile preludio “orientale” di sintetizzatori e chitarra elettrica pizzicata con l’e-bow.
Un ultimo demo ci fa ritornare al 1969, stavolta ai lavori per Led Zep II. La canzone si intitola già “Bring It On Home”, ma in questa sede mancano completamente l’intro e il finale di blues arcaico, copiato pari pari dal pioniere Robert Johnson senza che il suo nome figurasse poi nei crediti dell’album. Il pezzo inizia direttamente con la fase rock e con quella finisce.
Gli ultimi quattro contributi, meglio definibili come doppioni, quelli più forzati e meno intriganti del lotto, riguardano una seconda “We’re Gonna Groove” (1968, scarto di Led Zep 1) in una versione molto simile a quella già presente sull’originale “Coda” e quindi nel primo disco di quest’album. Stesso discorso per un diverso take di “Bonzo’s Montreux”, forse l’episodio più inutile nell’intero repertorio Zeppelin. Avanti ancora e parimenti con la semi acustica “Poor Tom” nella quale, per l’occasione, è assente la voce di Plant. Non cambia la situazione anche per “Walter’s Walk”, anch’esso un doppione del primo disco e privo della traccia di voce.
Questo è tutto per questa coda di “Coda”, le ultime gocce spremute dal grosso pomo del Dirigibile. Jimmy Page ha assicurato più volte che non vi potrà essere altro in futuro, che tutto quello che i quattro benemeriti Led hanno prodotto insieme in studio è stato pubblicato. Grazie mille Jimmy, dio ti benedica e lunga vita. Certo che invece di stare quasi a tempo pieno dietro al catalogo Zeppelin per tutti questi anni, ormai una trentina, avresti potuto darci qualche altra opera memorabile, diciamo almeno la metà di quelle degli Zep, Così non è stato ma ci accontentiamo, quello che avete fatto per un decennio basta e avanza e siete nella storia della musica.
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