How many bridges can they burn, till we turn?
How many lives can they take, till we break?
How many dreams TERRORIZED, till we rise?
How many visions will they burn, till we learn?

How many homes set alight, till we fight?
How many futures must we dream, till we scream?
How many sins must they repeat, till we're beat?
How many?
How many times?

Per questa recensione ho deciso di prendermi un lusso o meglio una licenza poetica: comincerò dalla fine, vale a dire dai cinque minuti di "21st Century Poem", brano che conclude in maniera sospesa ed evocativa Leftism, esordio dei Leftfield, duo londinese composto dai produttori Paul Daley e Neil Barnes.

Su un tappeto ambient ipnotico una voce maschile ci pone una serie di domande, alle quali, forse, saremo noi a dover dare una risposta. L’invito è chiaro: gridare, fare rumore, lottare per i propri diritti e contro ogni forma di sopruso o abuso di potere. Poco prima che la riproduzione si interrompa, dopo alcuni secondi di silenzio, una cassa di una batteria inizia a imitare le pulsazioni del cuore umano, per poi spegnersi in un fade out che, lentamente, mette fine alla nostra esperienza d’ascolto.

Inutile descrivere le emozioni che questa traccia provoca nel sottoscritto o accennare a quanto le speranze siano state tradite da un secolo che, almeno finora, sembra essere trascorso sotto il segno dell’incertezza e dell’inquietudine. Quello che vorrei sottolineare è la capacità di trasferire in musica quella “Pre-Millennium Tension” (mi si passi la citazione) così tipica degli anni Novanta, vale a dire quel mix un po’ ingenuo di paure, ansie e attese fiduciose che ha anticipato l’arrivo del 2000.

Questo turbamento si percepisce in molti pezzi di Leftism, eppure l’invito a farsi sentire espresso nel “poema del XXI secolo” non si traduce in un’attitudine punk e distruttiva come quella dei Prodigy di Music for the Jilted Generation o degli Atari Teenage Riot, ma in un’atmosfera diversa, colma di vibrazioni positive (in “Release the Pressure”, ad esempio, qualcuno dice: “I'm searching to find/A love that lasts all time/I've just got to find/Peace and unity”).

Lo sguardo rivolto al futuro si esprime, da un punto di vista musicale, nella volontà di sperimentare e andare oltre i confini fino ad allora conosciuti. L’approccio più tranquillo e per certi versi spirituale dei Leftfield viene infatti ricavato da generi ben precisi: il dub, il reggae, ma anche la world music e i canti africani presenti nell’esplosiva “Afro Left”. Tali elementi vengono accostati alla house, all’hip-hop, alla drum and bass, insomma al sound elettronico del periodo, allo scopo di creare qualcosa di nuovo, una dance music globale dove Nord e Sud, Oriente e Occidente (il lamento di John Lydon in “Open Up” non ricorda, almeno all’inizio, alcune salmodie mediorientali?) paiono fondersi magicamente.

La principale conseguenza di questo aspetto è la grande varietà della proposta del gruppo. Certo, la struttura articolata delle composizioni, unita all’uso di percussioni e batterie aggressive (la cassa e il rullante di “Space Shanty” sono davvero devastanti), distingue il debutto dei Leftfield, tuttavia il duo britannico osa in più di un’occasione, allontanandosi dalla celebrata progressive house. Mi riferisco all’ambient e gli echi jazz di “Melt”, all’hip-hop suggestivo del singolo “Original” o ai taglienti breakbeat di “Storm 3000”, ulteriori dimostrazioni di quella voglia di andare oltre a cui alludevo in precedenza.

Non importa che le sonorità siano a tratti un po’ datate (Leftism contiene brani pubblicati anni prima e ha sicuramente avuto una gestazione lunga), perché il risultato è clamoroso e l’impressione di trovarsi di fronte a una pietra miliare è fortissima. Basta ascoltare l’epocale “Song of Life”, idealmente divisa in due parti: la prima caratterizzata da pattern ritmici rallentati, punteggiati da sospiri e vocalizzi etnici, e la seconda in cui la tensione accumulata in precedenza si scatena in danze frenetiche, liberatorie. Davvero eccezionale.

A questo punto mi fermerei, lasciando la parola ai Leftfield e alla loro musica. Mi sembra superfluo aggiungere altre righe a quanto scritto, poiché è evidente che Leftism sia un album generazionale, in grado di segnare una stagione per certi versi irripetibile, contraddistinta da grande fermento, divertimento ed evoluzione sonora.

Se anche voi avete fatto parte almeno una volta di quella "tribù che balla" (citazione meno colta della precedente, ma necessaria) e avete sentito battere i vostri cuori all’unisono, probabilmente lo conoscerete già; gli altri, invece, possono cogliere l’occasione per scoprirlo e immergersi per un’ora in un disco monumentale, tra i migliori degli anni Novanta.

Fidatevi e state tranquilli: non ve ne pentirete.

Carico i commenti... con calma