Quando quel maledetto 20 luglio 2017 Chester Bennington decise di farla finita tutti ci siamo domandati quando e se avremmo di nuovo visto i Linkin Park all’opera. In tanti lo ritenevano addirittura impensabile, per molti Chester era un vocalist unico e insostituibile, lui era il tutto dei Linkin Park e i Linkin Park non avevano senso senza di lui. Io invece rientro tra quelli che pensano che bisognerebbe sempre andare avanti e non fermarsi di fronte ad un evento tragico, suonerebbe come una resa. Come nelle squadre di calcio (anche se lo so, son due cose ben diverse) tutti sono importanti e nessuno indispensabile o insostituibile, è il marchio a rappresentare il progetto, l’idea, il discorso che viene portato avanti. Se sono andati avanti per oltre 50 anni gli Yes con formazioni diversissime perché non dovrebbero farlo i Linkin Park? Quando sembrava ormai tutto perduto e relegato alla gloria eccoli con una voce femminile, di nuovo in tour… e con un nuovo album.

Emily Armstrong è una voce grintosa e perfettamente adatta alla musica del gruppo, sebbene io, in quanto a voci femminili, preferisca quelle più melodiche e meno “maschie”; con Mike Shinoda forma una coppia formidabile, lei è la rabbia e lui continua ad essere la parte melodica ma soprattutto il rapper del gruppo, con le sue parti sempre ben riconoscibili. In ogni caso non è l’unico elemento nuovo nella band, in quanto il batterista Rob Bourdon non ha preso parte alla reunion e viene sostituito da Colin Brittain. Discorso diverso riguarda il chitarrista Brad Delson: continua a far parte dei Linkin Park ma soltanto in studio e nel retroscena, non suonerà in tour.

Eccoci così, forse un po’ inaspettatamente, a parlare di “From Zero”, ottavo album dei Linkin Park, l’album della rinascita, della ripartenza… da zero. Qualcuno lo ha definito come un album che raccoglie tutto ciò che il gruppo è stato negli anni ma non mi trova d’accordo più di tanto. Non c’è nulla del pop scarno di “One More Light” (menomale, diranno praticamente tutti), né del rock elettronico ad alto voltaggio di “Living Things”, ma non ci sento nemmeno lo sperimentalismo coraggioso di “A Thousand Suns”, a parte qualche accenno.

L’album è all’insegna dell’energia pura, dell’adrenalina, è tranquillamente un album in grado di piacere a chi si è avvicinato alla band proprio ammaliato dalla sua grinta; un’energia a metà fra rock alternativo, punk e nu-metal. Se lo si volesse descrivere a chi ancora non l’ha ascoltato (immagino che in tanti non ne avranno avuto il coraggio, non ce l’avranno fatta proprio) potremmo dire che è sospeso fra il rock alternativo pompatissimo di “The Hunting Party” e la voglia di ritorno alle proprie origini nu-metal. Essenzialmente le chitarre sembrano suonare maggiormente sullo stile alternative rock/metal ma gli echi più distorti di un “Hybrid Theory” si sentono eccome nelle corde di Brad Delson. Quello che più riavvicina i Linkin Park alle origini è l’effettistica minimalista, volutamente scarna ma azzeccatissima propiziata da Joe Hahn, vero e proprio sound designer e punto di forza della band. L’adolescente turbolento degli anni 2000, ora cresciuto, che si era innamorato proprio di quelle basi di evidente estrazione hip-hop (chissà quanti fan del rap si saranno avvicinati a cose più “dure” passando per i Linkin Park) che si affacciavano fra i muri di chitarre, si troverà a casa con queste sonorità, dirà <<sì, questi sono i miei Linkin Park>>, specie se deluso dalle successive incarnazioni della band e dalle sue continue sterzate stilistiche.

Condivido l’opinione di chi ha definito l’album come un mancato seguito di “Meteora”; ancora oggi mi chiedo perché quella fase esplicitamente nu-metal sia durata così poco quando si poteva portare avanti e approfondire ancora un po’, questo sembra proprio il disco con cui questo si poteva fare, sarebbe stato l’ideale terzo disco, che riconfermava quel mix ma si proiettava in avanti verso una cifra più alternative. C’è infatti da dire che le tracce davvero nu-metal, con quel suono di chitarra, quelle che davvero potevano essere uscite dal 2000-2003, sono praticamente soltanto due, “Heavy Is the Crown” (che è praticamente impossibile non imparentare con “Faint”) e “Two Faced” (simile più o meno a una “One Step Closer”). Brani invece come “Casualty” e “IGYEIH”, pur segnate da quel tipo di effettistica, hanno un’impostazione chitarristica dura sì ma già più levigata. Ad approfondire il lato più elettronico troviamo la ricercata e oscura “Overflow” e la più catchy “Stained”, il brano più orecchiabile del lotto, che non ha nulla a che vedere con quanto realizzato nel precedente album ma sorprende con quel suo ritornello quasi teen pop; sono brani che non rievocano le produzioni più esplicitamente elettroniche del gruppo, hanno anch’esse le radici piantate nei primi anni di carriera, sono due brani che mettono a nudo quel minimalismo sintetico spogliandosi (o quasi) delle chitarre, è qualcosa di simile a ciò che accadeva in brani come “Nobody’s Listening” (a cui “Stained” sembra più simile) o “Session”.

Esplicitamente più vicine a “The Hunting Party” sono invece “The Emptiness Machine” e “Cut the Bridge”, la prima è simile a “Guilty All the Same”, la seconda (per me la traccia meno entusiasmante del disco) ricorda più “Bleed It Out” da “Minutes to Midnight” ma in chiave più dura. Non riesco a trovare invece una collocazione a “Over Each Other”, non è molto heavy, non è molto elettronica, non è neanche troppo pop, non si sa dove vuole andare a parare. La conclusiva “Good Things Go” è invece lenta, melodica e sofferta, sfodera quel lato più maturo e intimista che emergeva in “Minutes to Midnight”; bella l’impennata vocale di Emily nel ritornello mentre qua Shinoda poteva risparmiarsi il rapping, sembra posticcio e fuori luogo, quasi fastidioso, sembra una pubblicità estiva della Sammontana.

Venendo alle conclusioni si possono forse fare alcune critiche all’eccessivo autocitazionismo, a volte clamoroso, in cui la band è incappata, ma penso sia frutto della scelta di realizzare un album sostanzialmente classico. Per tornare alla grande avevano bisogno di qualcosa che conservasse quella grinta che li aveva resi famosi, senza diventare troppo sperimentali ma stando comunque attenti a non diventare banali. E direi che nel complesso questa prova di ritorno è superata a pieni voti.

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