“From Zero?
“Yes”
“Like…from nothing?”
Si apre con questa intro, avvolta in un coro di voci armoniose, il disco che sancisce il ritorno tanto atteso, quanto inaspettato, dei Linkin Park. “From Zero”, per ricominciare daccapo e per ricordare, con dovuta assonanza, da dove tutto è partito, ovvero dagli “Xero”, prima formazione di Mike Shinoda e Mark Wakefield e fase embrionale del progetto definitivo.
Sono passati sette anni dalla morte di Chester Bennington e tra il silenzio assordante dei componenti della formazione di Agoura Hills e l’uscita di una manciata di vecchie b-sides a titolo di inediti, si avvertiva la netta sensazione che la storia dei Linkin Park fosse giunta al capolinea.
Niente di più sbagliato. Mike Shinoda, in occasione della presentazione della nuova lineup, ha confessato di non aver mai abbandonato l’idea di continuare.
Il 2024 è stato l’anno della rinascita e dell’arrivo di Emily Armstrong, voce dei “Dead Sara”, band underground sconosciuta ai più. Con lei, il batterista (polistrumentista e produttore) Colin Brittain, che ha riempito il vuoto lasciato da Rob Bourdon, deciso a non prendere parte al nuovo corso.
Il resto della formazione è rimasto quello degli esordi, con Brad Delson assente dai palchi (al suo posto il turnista Alex Feder) ma parte attiva in studio e in tutte le attività della band.
Le cose sono state messe in chiaro fin da subito: nessuno potrà mai sostituire Chester Bennington. Chi ha preso il suo posto l’ha fatto in punta di piedi, consapevole di farsi largo in una fitta trama di diffidenza.
È bene dire anche che la scommessa è stata oggettivamente vinta. Emily Armstrong è una cantante carismatica e dalla notevole vocalità. Non possiede la potenza di Bennington nello scream e growl (per ovvi motivi) ma non sfigura minimamente al coerente confronto, vincendo ai punti quando si tratta di melodia, dove l’ex frontman non eccelleva completamente.
Ma veniamo al disco. “From Zero” è tutto ciò che i fan di vecchia data speravano di sentire e una bella nuova realtà per chi non si è mai approcciato alla musica del vecchio corso.
È un lavoro molto prudente ma molto ben fatto. Il primo singolo “The Emptiness Machine”, con la sua melodia catchy che si appiccica al cervello, aveva fornito le coordinate fin da subito, conquistando bene o male tutti. Il rapping tirato a lucido di Shinoda, incastrato alla perfezione con la voce ruggente di Armstrong e accompagnato dai riff scanzonati di Brad Delson, ci hanno riportato ai tempi di "Meteora".
“Cut the Bridge”, che segue, ci fa capire quanto recuperare la bellezza del passato sia cosa buona e giusta. Mr.Han, con i suoi piatti, introduce il rullante agitato di Brittain e la mente ci riporta in un lampo ai refrain di “Bleed It Out”, anno 2007, da “Minutes To Midnight”.
Lo stesso accade con “Heavy Is The Crown”, una delle tracce più potenti della tracklist, che vede Emily scatenarsi in uno scream forsennato, tramite il quale ci dice quanto sia pesante l’eredità che le spetta e quanta responsabilità lei abbia. Ci sono i riff e l’elettronica del periodo di massimo splendore e quel pizzico di effetto nostalgia rende il tutto davvero notevole.
Il picco dell’aggressività arriva con “Casualty”, che non ci dà neanche il tempo di scaldare i motori, prima di esplodere. Mike, in questa occasione, propone a sua volta uno stile aggressivo e del tutto inedito. Nelle parentesi di parlato sussurrato, Emily ricorda in toto Jonathan Davis dei Korn, mentre si mischiano scratch in lontananza, che anticipano un cantato diabolico alla Hatebreed.
Dopo tanta rabbia, non può mancare la melodia. “Over Each Other” dà un’opportunità alla voce di mettersi completamente in luce. Il timbro della nuova cantante ricorda molto quello di Lzzy Hale degli Halestorm, anche nello scream. Non a caso la Hale era tra le papabili candidate al nuovo corso (aveva tratto in inganno la sua versione unplugged di “Crawling”, fatta girare ad arte sul web). Il cantato parla della fine di un rapporto di coppia, rovinato dall’impossibilità di confrontarsi in modo chiaro, perché troppo abituati a “parlarsi sopra l’un l’altro”.
Molto bello il testo in tanti suoi passaggi:
“This is the letter that I didn’t write,
Lookin’ for color in the black and white
Skyscrapers we created on shaky ground
An I’m tryna find my patience”
C’è anche il dovuto spazio per l’estro di Joe Hahn e i suoi sintetizzatori con “Overflow”. Elettronica, voce suadente e rime si uniscono in un amalgama ritmato e molto gradevole, che richiama all’ordine quanto fatto in passato con “A Thousand Suns”.
“Two Faced” e “IGYEIH” (I Gave You Everything I Had) gasano e agitano, riportando a galla la potenza di “The Haunting Party” e le classiche e sempreverdi soluzioni dell’immortale “Hybrid Theory”. È particolarmente evidente un dualismo del tutto nuovo tra le voci; si avverte grande affiatamento e Mike Shinoda viene chiamato in causa molto più spesso rispetto al passato. È in episodi come questo che Emily Armstrong da completamente sfogo a se stessa. Diventa un fiume in piena, senza lesinare parentesi di serrato hardcore, mentre canta di temi fedeli al passato come il malessere, l’angoscia, la salute mentale, costruendo un collegamento con chi, prima di lei, sfogava nel songwriting tutte le frustrazioni a scopo curativo.
La sopracitata sintonia è tanto evidente dove c’è potenza, quanto dove regna l’armonia. Contribuisce alla causa “Stained”, pezzo radio friendly che si fissa in testa con la sua sintetica semplicità ed è perfetta per la dimensione live.
Ma è con “Good Things Go” che vuole passare davvero il messaggio. Scelta opportunamente come closing song, tra arpeggi di chitarra e parole dall’alto tasso emotivo, Emily culla le malinconiche riflessioni sul recente vissuto della band, proposto dal cantato in collaborazione con Shinoda:
“Fells like it’s rained in my heart for a hundred days.
Stare in the mirror and I look for another face
And I get so tired of putting out fires and making up lies
Checking my eyes for some kinda light…”
Si è discusso tanto, se fosse opportuno mantenere per il nuovo progetto il vecchio moniker della band. C’è chi ha esternato il proprio disappunto in merito e chi si è anche lamentato per la presenza di una donna dietro il microfono. Qualcuno ha persino parlato di ipotetiche profanazioni della memoria di Chester Bennington (come il suo primogenito, tra gli altri).
Trovo che tutte le scelte siano state fatte in modo coerente e ragionato, partendo dal presupposto che nel cuore dei seguaci e nella lettura oggettiva della realtà, Chester Bennington non potrà mai essere sostituito da nessuno. Scegliere una figura femminile mette al sicuro da buona parte delle critiche e porta fascino e aria nuova.
Un nuovo nome avrebbe annullato qualsiasi idea di continuità, archiviando poco opportunamente una lunga storia fatta di successi e ricondotto ogni futura scelta stilistica a un vecchio libro di memorie.“Chez avrebbe sicuramente amato Emily e approvato con entusiasmo le nostre scelte. Odiava la cattiveria gratuita, la negatività e le critiche poco costruttive”. Così Mike Shinoda ha archiviato ogni critica con il sorriso.
Che questo disco, quindi, sia l’inizio di un nuovo ciclo, che risollevi degnamente l’entusiasmo perso con l’ultimo capitolo “One More Light” e lenisca la malinconia portata dalla scomparsa di uno dei più carismatici frontman degli ultimi trent’anni, mantenendone sempre viva la memoria.
Da ascoltare assolutamente.
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