Il ventennale di carriera rappresenta un traguardo che và sempre onorato, a prescindere dall'attività, dalle lodi e dalle infamie collezionate durante il percorso, anche se arrivarci in forma smagliante non é un fatto da dare assolutamente per scontato.
Perché 2 decadi sono lunghe ed un conto é averle passate a dipingere tele, scrivere romanzi, calpestare campi da golf, un altro é aver calcato i più importanti palchi nazionali ed internazionali sulla cresta dell'onda di quel punk-hardcore dei tempi belli che ha mietuto più fedeli che vittime ed essere riusciti a cavalcarla fino a vederla diventare schiuma sul bagnasciuga. Sono esperienze che logorano tanto il corpo quanto lo spirito.

È questo il caso de L'invasione Degli Omini Verdi, storica combo bresciana meritevole, fra le altre cose, di essersi ritagliata un piccolo spazio all'interno del panorama mainstream nostrano con la pubblicazione dell'album "Nel nome di chi?" del 2010 e, suo malgrado, di aver attirato l'attenzione della censura da parte dei principali editori nazionali a causa delle numerose tematiche forti affrontate all'interno del disco (una su tutte la pedofilia nel clero denunciata col singolo che dà il titolo all'opera).

La loro ultima fatica discografica risale al 2015 ed é in realtà una raccolta su doppio cd intitolata "16 anni dopo", un tipo di iniziativa insolita per una band indipendente ma rivelatasi comunque utile a tirare il fiato, riarrangiare e reincidere i brani più fortunati del repertorio, rinfrescando così l'appeal in sede live, più che a consegnare una manciata di inediti, dovendo essere onesti, non esattamente memorabili.

La buona notizia é che il 22 febbraio scorso é uscito "8 bit", quella cattiva è che la band si presenta all'ottavo episodio discografico orfana del bassista Giacomo Moretti, immortalato sulla pagina Facebook degli stessi Omini durante le fasi di registrazione ma non pervenuto nelle foto promozionali di rito.
In attesa di capire la line-up che li condurrà al ritorno dal vivo, la nuova pubblicazione vede i nostri rinnovare il sodalizio con l'etichetta indiebox, fondata nel 2004 dal batterista della band Maurizio Vinci, una sorta di Brett Gurewitz de' noantri.

Il disco si apre con "Credimi", un pezzo punk-rock come quelli ai quali ci hanno abituato oramai da anni gli Omini Verdi.Veloce, tecnicamente ben eseguito, con quel doppio colpo sulla cassa di importazione californiana che incoraggia a tenere il tempo ed in cui ogni cosa é al posto giusto.
Il testo della canzone rappresenta una dichiarazione di intenti da parte di Ale:quella che abbiamo appena messo in riproduzione risulta essere un'esperienza compositiva assolutamente necessaria per lui ("morirei se non potessi esprimermi macchiando di pensieri fogli vuoti").
Non si direbbe lo stesso per quel che riguarda il lavoro strumentale, eppure la struttura quasi scolastica del brano saprà farsi apprezzare ed in qualche modo emozionare gli amanti della formula punk-rock anni '90.
Roba da crowdsurfing insomma, di quello tipo il doppio colpo sulla cassa di cui sopra.

Si prosegue con "La nostra storia", attraverso la quale la band lombarda torna a darsi l'incombenza di tracciare un bilancio riguardo la propria carriera in maniera analoga a quanto fatto in un vecchio brano intitolato "98", ma dall'alto di una prospettiva che solamente altri 14 anni di scorribande in giro per l'Europa potevano regalare loro.
Rispetto al brano di apertura, gli arrangiamenti suonano immediatamente più curati e riportano alla mente i fasti di dischi come "My Republic" dei Good Riddance,tanto per intenderci.Ovviamente vanno fatte le debite proporzioni, in fin dei conti la nebbia di Brescia non fa certo hc-melodico come il sole di Santa Cruz.
Comunque questo rappresenta una novità nel registro degli Omini Verdi (non esattamente gli allegri cazzuti della situazione) che và accolta assolutamente con grande entusiasmo, anche in ottica futura.Persino il testo, rispetto a "98", é più ottimista:i ragazzi non prendono più le distanze da chi critica, piuttosto preferiscono abbracciare chi è rimasto sotto al palco tutto questo tempo.
Un vero omaggio ai fans che non potrà lasciarli indifferenti.

"Rinuncia" é la terza traccia ed é quella che più di tutte fino a questo punto dell'ascolto sembra riprendere il discorso interrotto nel 2013 con l'ultimo disco di inediti "Il banco piange".
Le tematiche sono quelle dell'ingiustizia sociale ai danni dei più deboli e dell'impegno che ognuno di noi, nel suo piccolo, può e deve mettere per cambiare l'inerzia di una ruota che gira sempre meno in favore dei comuni mortali.
In pratica, i temi da sempre più cari agli Omini.
In tutta sincerità però, anche in questo come in diversi componimenti del passato, il songwriting appare poco ispirato, a tratti banale ed in questo Ale e soci si dimostrano recidivi:una band in grado di suonare tecnicamente molto bene e che nei suoi recenti trascorsi ha saputo strizzare l'occhiolino a quella parte di alt-rock più radiofonica con una certa personalità, deve sapersi esprimere in maniera consona alla musica che suona.
Un vero peccato, perché il brano suona tipo i Rise Against nel loro primo approccio mainstream e questa poteva essere un'occasione per arrivare con successo all'orecchio di chi é maggiormente predisposto a qualcosa di più pop.

Si giunge poi a "Il funerale della verità", il quarto brano in tracklist.
Un pezzo breve, tirato, gagliardo! 1.46 di skate-punk/hardcore , il cui riff che introduce le strofe é di quelli che ipotizzo si abbia voglia di scrivere dopo essersi sparati un disco qualunque dei Motörhead con in corpo mezza bottiglia di Jack Daniel's.
L'intelligenza di questo pezzo sta nel saper trasformare la rabbia del messaggio (come sopra, questa volta però attraverso un approccio più intimo ed assolutamente in grado di fare centro) in melodia mediante alcuni interessanti passaggi di chitarra ritmica che riportano alla mente i primi Venerea e tutte quelle cose fighe che sapevano fare in Svezia tempo fa, non ultimi gli Atlas Losing Grip nel periodo di militanza di Rodrigo.
Esattamente il tipo di pezzo che non dovrebbe mai mancare in nessun disco di nessuna band che abbia una vocazione marcatamente hc-melodico.

La seconda metà di "8 bit" si apre con "Vorrei", un brano che sa tanto di Bad Religion sia per l'intro di chitarra che per le back vocals nel pre-chorus e che, per quel che riguarda il testo, presenta un Ale ispirato evidentemente da routine e disillusione, sempre più mali comuni del nostro tempo una volta compiuti i 30 anni :"Non distinguere i giorni giorni dalle settimane/che finita la pioggia inizia il temporale" ed ancora "l'arrivismo segno indiscutibile di una generazione nata sterile"
Un gran bel pezzo, al primo ascolto ci si aspetterebbe qualcosa di più dal ritornello ma una volta metabolizzato suona tutto in maniera assolutamente omogenea.
Il migliore del lotto in assoluto fino a questo punto.

"Un nuovo giorno" é la traccia che si incontra proseguendo in scaletta ed é probabilmente quella più adatta al sing-along ai concerti.
Si tratta di un pezzo rock estremamente godibile, di quelli che si fanno ascoltare volentieri per il riff iniziale abbastanza ruffiano e gli arpeggi con le prime tre corde ad accompagnare e sostenere la strofa.
Se quello che lo ha preceduto é il pezzo artisticamente più apprezzabile, questo è senza dubbio il più paraculo, nel senso buono del termine.

Si arriva così al singolo che ha anticipato l'uscita dell'album con tanto di videoclip ispirato al mondo nostalgico delle sale giochi e che porta il nome di "Arcade Boyz".
Onestamente, una marchettata senza eguali a questi livelli, non voglio dire di fama, ma di reputazione:il brano in sé rappresenta ciò che di più classico si possa pescare dal calderone punk-rock/hc di stampo californiano, pur suonando a suo modo fresco e coinvolgente.Quello che non convince é la sua natura promozionale (il pezzo é stato commissionato dagli Arcade Boyz, duo di youtubers noto per i suoi video react e protagonista del videoclip stesso, per essere utilizzato come nuova sigla per il loro canale) che, soprattutto a livello di liriche risultato poco pertinente alla tracklist di un simile album.
Scorre via innocuo ma , purtroppo per lui, non certo inosservato.

Tocca a "Fine", come suggerisce il titolo stesso, calare il sipario sul disco col suo ibrido di hc-melodico e pop-punk, vedi alla voce No Use For A Name da "Hard rock bottom" in poi.Si tratta di quel genere di brani che fanno incazzare i puristi e che hanno fatto la fortuna di parecchie band del circuito Fat Wreck e similari, nonché contribuito a dare lustro ad una California che altrimenti sarebbe tuttora ricordata per le maggiorate al silicone di Baywatch e gli eccessi di Hollywood e delle sue superstar.
Come successo con la seconda traccia, anche l'ultima del disco lascia intravedere il sole, con il verso a precedere l'ultimo refrain che recita "la fine é una nuova evoluzione che col tempo capirai".

Ora, piacerebbe parlare di svolta per la carriera di una band che sin dagli esordi si é sempre distinta per una certa coerenza ed integrità e che difficilmente si é allontanata dalla propria comfort zone in questi 20 anni. La sensazione che trasmette questo "8 bit" a fine ascolto è che gli Omini Verdi ci abbiano comunque provato, per lo meno per quel che riguarda il suono e l'approccio.

Molto curata la produzione, frutto di una continua esperienza sul campo maturata daGiovanni, diviso fra il suo ruolo di chitarrista della band e quello di tecnico del suono/responsabile della "direzione artistica" del progetto, nonché tecnico delle band dell'intero roster indiebox.

Il risultato é un disco breve, eterogeneo ma non nel senso negativo del termine, che si lascia ascoltare pur non reggendo il paragone con i più granitici "Contro" e "Nel nome di chi?" e che, visti gli ottimi spunti mostrati (a dispetto di un singolo così così), può certamente spianare il terreno ad una nuova invasione, speriamo pacifica.

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