Lio. Un casto incrocio tra France Gall, Jaqueline Bisset e Minerva Minnie Mouse. Un mix di iconicità statica, caramellosa repressione e irrefrenabile aspirazione a conseguire un valore plastico. Synth pop, europop, disco pop. Iniziavano gli Eighties. Trevor Horn pontificava transizioni epocali. I barbari tornavano a casa. E lo spirito giovane non si sapeva ancora recepire. Wanda Maria Ribeiro Furtado Tavares de Vasconcelos, Lio dal fumetto “Barbarella”, debuttava con l’album omonimo.

Lio era votata a una amichevole comprensione e al candore più riservato: moine da educanda, sguardo innocuo, voce civettuola e sovente insulsa, lunghi capelli elastici, scuri e mossi. Neomaggiorenne, portoghese naturalizzata belga, con una inappuntabile dizione francese: un appeal rassicurante per l’intera generazione Postal Market, quella che affinava la coordinazione oculo-manuale fino a scovarne le proprietà taumaturgiche.

Dapprima Lio, con racchiusa inquietudine, evoca «Amori solitari in una città fantasma / amante immaginario, dopotutto chi se ne frega!» (“Amoureux Solitaires, testo di Elli Medeiros proveniente dalla punk band francese Steaky Toys). Poi Lio racconta una bugia fatta solo di sguardi. E fa il tiremmolla. «Se lui corre come un kamikaze proprio lì sotto, il nemico andrà a testa in giù / Colpo basso sui gioielli di famiglia!» (“Amicalement Vôtre”). Ma chi l’aveva solleticato questo antagonista? «Non m’importa se tu mi baci / Na Na Na / Ma dovresti afferrare l’occasione prima che scappi / Na Na Na / Se hai bisogno di qualcosa per rompere il ghiaccio / Banana Banana Banana / Questo è il dessert che serve l’abominevole uomo delle nevi / E ogni ragazzo nell’adolescenza è abominevole / Ecco un amore di dolce: la Banana Split» (“Le Banana Split”).

A questo esordio provvidero i Telex, con il compito di rendere la loro elettronica, già fruibile, ancora più pop per la "chanteuse". Al secondo album collaboreranno invece gli Sparks (sempre fatalmente attratti dal Vecchio Continente), ma la troverà interessante persino John Cale (che produrrà quasi tutto “Pop Model”).

Lio rincorre la soavità melodica, senza eleganza, senza dettagli lirici, con toni bubblegummy e piagnucolanti synth, il piano e le morbide blandizie della lingua francese. Pezzi più disposti, col tempo, al revival nostalgico che all’interesse artistico, inseguendo un romanticismo spicciolo, un erotismo proporzionato a intenti mimetici, un orientamento immancabilmente teso ad impressioni superficiali. Nondimeno testi elegiaci: «La mia cosina è la sola topina che volevi / Guarda nel fondo dei tuoi occhi quando ti sorride / Ma non vedrai i denti» (“La Panthère Rose”). Ebbene sì, cala un velo d’imbarazzo. Salvo poi mostrare una certa dedizione per l’ordinamento sociale: «Giù le mani dalla mia anatomia, ho un miliardo di zone erogene / Mi preoccupo per il mio ragazzo, vivo per un amore monogamico» (“Amicalement Vôtre”). E per sottili filosofemi: «Quello che scorgo lì non ha l’aspetto / che di ulteriori apparenze» (“Si belle et Inutille”).

Lio non fu simbolo degli Ottanta: priva di eccessi esteriori, viso acqua e sapone, sostanzialmente incompiuta, non poteva diventare un fenomeno di costume. Ma non fu nemmeno una meteora (visto che ha dieci album all’attivo, in aggiunta a una discreta filmografia). Anticipò, anche lei, Madonna (scaltra invece a opporre sesso e religione, a cambiare immagini e mode). La anticipò col pregio della debuttante. Confidenzialmente. «Ho la pelle morbida all’altezza delle gambe». Fu contro, ma vittima, infine, del riduzionismo del tempo. Tutto lì. Lio è così una lacrimuccia nel tempo andato.

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