Ci sono dischi che per una ragione o per l'altra ti si appiccicano addosso e per tutta la vita viaggiano con te, senza che niente e nessuno possa mai scalfirne il legame. E poco importa se quel disco non è universalmente riconosciuto come un caposaldo del rock. L'importante è che lo sia per te. E poi ci sono artisti dai quali rimani folgorato e che te ne innamori senza sapere bene il perché. Gli vuoi bene a prescindere e qualsiasi loro mossa, anche se non proprio indovinata, finisci per amarla così come si fa con il proprio partner.

"Rattlesnakes" nella fattispecie rappresenta il disco e Lloyd Cole l'artista.

Ben presto abbandonato dai media, Lloyd Cole ha continuato imperterrito - da quel lontano 1984 anno di "Rattlesnakes", l'esordio - a sfornare dischi di buona qualità, con rarissime cadute di stile, rimanendo legato ad un frizzante, meditativo e intimista folk-pop dai forti richiami melodici. In verità pure il sottoscritto, per un certo periodo, lo aveva un po' perso di vista, vuoi per l'oblìo mediatico nel quale era (ed è) piombato, vuoi per le divergenze estetiche che hanno caratterizzato certi miei anni musicali, salvo poi tornare sulla perduta strada e recuperare praticamente tutta la discografia del Nostro.

"Music In A Foreign Language" giunge nel 2003 (nono album in carriera) e a parere del sottoscritto si staglia ben al di sopra delle ultime, peraltro dignitose, prove dello scozzese ritagliando un introspettivo quadretto di artigianato folk-pop ingiustamente passato inosservato. Nove brani autografi in aggiunta ad un'unica cover, quella "People Ain't No Good" di Nick Cave, qui resa in versione spoglia e sobria, laddove l'incedere funereo di King Ink viene lasciato in disparte ad uso e consumo del suo legittimo autore. Disco prettamente acustico, di struttura fragile ed eterea costantemente venato da una soffusa malinconia, fatto apposta per accompagnare cuori infranti e amori delusi, inconfondibile marchio di fabbrica di Lloyd Cole, così come riconoscibile risulta il suo caldo timbro vocale, ancora più profondo e confidenziale rispetto agli esordi.

Forse è proprio il suo immobilismo, il suo scavare in verticale, che con l'andare del tempo lo ha relegato nelle retrovie dell'attuale panorama musicale, quando in verità molta della produzione contemporanea più esposta non ha che da prenderne lezione.

Musica lontana anni luce dal caos metropolitano, dai quotidiani ritmi frenetici, dallo squillare dei telefonini, dall'impazzare di internet in ogni angolo di mondo. Musica in una lingua straniera, come lui stesso ci suggerisce. Lloyd Cole si è chiuso in un guscio e continua a fare dischi per me e per quelle anime gentili che non necessitano dell'ennesima, e spesso inutile, novità, ma che ogni tanto si rannicchiano sotto un cielo stellato pensando che, forse, il domani può anche attendere.

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