Il 1969 fu un anno entusiasmante e tragico allo stesso tempo. La stagione hippie toccò il suo zenith a Woodstock, nell'attimo in cui sembrava che i suoi ideali avrebbero presto trionfato. Tuttavia, mentre il conflitto nel sud-est asiatico entrava nella sua fase più cruenta, anche nel reame californiano si addensavano oscure nubi. Charles Manson e i fatti di Altamont mostrarono il lato oscuro, la nemesi di quella stagione e i lavori più entusiasmanti di quell'irripetibile abbrivio mostravano le stimmate di un'atmosfera quasi da "fin de siècle". "Four sail" appartiene indiscutibilmente a quella ristretta élite.
In tutto questo può apparire una forzatura parlare di Arthur Lee. Se è vero che i Love furono l' equivalente westcoastiano dei Velvet Underground per innovazione, impatto, talento compositivo, è tuttavia innegabile che prima di calare il gruppo così a fondo nel contesto storico dell'epoca bisogna ricordare come i Love siano sempre stati un caso a parte nel contesto della scena, benché avessero tenuto a battesimo tantissimi artisti, dai Doors a Jimi Hendrix.

Splendidamente arroccato in una tetra magione nelle colline di Los Angeles, persi tra eroina, Lsd e le allucinate visioni di Lee, il gruppo non uscì mai dai dintorni californiani. Il loro contributo fu squisitamente musicale, dato che i primi tre album brillavano di sfolgoranti laminature sixties, unendo in un sincretismo strabiliante psichedelia, garage, blues, flamenco, pop e jazz, culminando nel pastiche orchestrale di "Forever changes", album per cui la definizione di capolavoro è pleonastica. L'indifferenza del grande pubblico verso una miscela sonora oggettivamente aliena, e le tensioni all'interno della band, spinsero Lee al "sciogliete le righe". Per onorare l'ultimo album dovuto alla Elektra (il titolo è un "for sale" camuffato), il dispotico cantante/ chitarrista reclutò un power trio sulla falsariga della "Experience" del suo ex discepolo di Seattle, composto dal funambolico batterista George Suranovich, dal bassista Frank Fayad e soprattutto dal magnifico chitarrista Jay Donnellan.
Il segreto di "Four Sail" risiede nell'alchimia tra la varietà di soluzioni, lisergiche e aggressive, apportate dalla nuova band al sontuoso e visionario songwriting di Lee. La magia di "Forever changes", sospesa tra onirici arrangiamenti e iridescenti accelerazioni, è dissolta: da fumi anfetaminici esce un suono più oscuro e aggressivo, plasmato dalla sei corde hendrixiana di Donnellan. L'iniziale "August" è esemplare in tal senso: una tenue melodia viene presto sfregiata da ringhiosi ed estesi duelli chitarristici di stampo acid blues, sorretti da una sezione ritmica pulsante e da vocalizzi e cori sanguigni. Sui medesimi binari si snodano la furia velata di jazz di "Good times", il variegato canovaccio western di "Singing cowboy", il vortice incendiario di "Talking in my sleep", mentre "Robert Montgomery" amalgama un'originalissima psichedelia a metà strada tra la linearità del pop e sontuose incandescenze strumentali.
Non mancano tuttavia frammenti in cui è la sensibilità di Lee farla da padrone: la deliziosa "I'm with you" sfreccia lieve su cadenze quasi bossanova, il soffice country-rock "Your friend of Mine - Neil's song" rievoca gli spettri dell'eroina come nella celebre "Signed D.C.", mentre "Nothing" forgia smaglianti allucinazioni pop. Infine, sulle ballate "Dream" e "Always see your face" Donnellan cesella incalzanti assoli che fendono atmosfere malinconiche e fiabesche, date da morbidi e barocchi umori, nonché da quella voce perennemente fuori dal tempo.

Tutto questo è l'ultimo, grande album targato Love: prima che il tunnel degli anni 70 inghiottisse Arthur Lee.

 

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