La vita agra di Luciano Bianciardi era già presente nella mia memoria da molto tempo, anche se di preciso non so da quando e non so per quale motivo. Collocavo il romanzo confusamente nel periodo del secondo dopo-guerra, da qualche parte nell’Italia centro-settentrionale, all’interno di nessuna precisa corrente politico-culturale.
In questi giorni ho riscoperto che esso è un romanzo del miracolo economico che mette in luce, in anticipo come solo un romanzo può fare, gli aspetti più oscuri di questo fenomeno storico italiano.
Si tratta di un testo in cui autore, narratore e protagonista sono pressapoco, per quanto possibile, la stessa persona. La trama è abbastanza semplice. Sin dall’inizio il protagonista, un anarchico idealista, si trova a Milano. Si è trasferito qui dalla Maremma Toscana con l’intento di vendicare quarantatré minatori della sua terra, che erano morti in un incidente scoppiato in una miniera in circostanze oscure. Come il bombarolo di De André, lì, a Milano, vuole colpire con un attentato il Torracchione, ovvero la moderna sede dell’impresa proprietaria della miniera.
Milano fa cadere ben presto nell’oblio lo scopo della sua trasferta.
Vive inizialmente nella Braida del Guercio, una sorta di borgo che si trova appena fuori dal centro cittadino, dove convive con un altro emigrato in un piccolo appartamento, che condivide il pianerottolo con altri appartamenti in cui vivono altri emigrati come loro. Nel condominio e nella Braida può così conoscere balli, canti e racconti di varie parti d’Italia e d’Europa. Nella biblioteca può conoscere la storia di quel luogo.
L’incontro e l’innamoramento, la relazione e la convivenza con Anna lo portano dentro la bolgia cittadina. Il rapporto tra i due è ondivago e impetuoso, vitale ma assediato: mano a mano, inesorabilmente, la continua necessità di denaro e le scadenze e gli esattori e le impellenze, relegano l’entusiasmo copulatorio delle loro prime giornate, a un cantuccio notturno, l’unico momento in cui l’attivismo milanese frena.
Al di fuori della relazione con Anna, a Milano non esistono relazioni come quelle che si potevano instaurare in Maremma o nella Braida. L’altro interessa solo in relazione alla grana che guadagna e ai dané che può spendere. Altrimenti è uno sconosciuto, guardato con chiusa ostilità sui tram o sui marciapiedi.
Si rabbrividisce osservando la morte di un uomo ubriaco:
Era una bolgia di purgatorio, e mai ho saputo con precisione se quelle larve fossero uomini oppure donne, persone vere o fantasmi. Ricordo una sera di sabato che avevo litigato con Anna per le solite storie, e mi aggiravo fra le marruche della bolgia con in corpo una gran cattiveria triste e pensieri atroci. Mi passò accanto una larva e sentii una specie di sibilo sottile e insistente, e allora decisi di scappare subito a casa, da Anna, di far subito la pace, ma proprio al principio del corto budello, accanto a un distributore di benzina, c'era un uomo steso per terra, di certo un ubriaco, perché spesso la sera del sabato si sentiva il canto iroso e sconnesso di qualche ubriaco rimasto solo. L'uomo per terra aveva i capelli bianchi e adesso guardava me con un sorriso ebete. "Come va?" gli chiesi. "Vuoi una mano?" Brontolò qualcosa in dialetto, di gola, si tirò su a sedere e mi tese la mano. Avevo capito che intendeva dirmi aiutami a rialzarmi in piedi, e infatti lo aiutai. Per un poco anzi lo sostenni sotto le ascelle, ma appena l'ebbi lasciato, e lui tentò di andarsene con le gambe sue, barcollò e cadde all'indietro. Ci rimase secco, e mi guardava ancora, ma senza più il sorriso ebete, anzi con occhi di vetro, e quando mi chinai a vedere meglio scorsi un filo di sangue che gli usciva dalla nuca e si spandeva nero sul selciato. Al bar lì accanto avevo già visto quattro uomini senza cravatta che giocavano a carte, e così andai là, a dire che c'era un ubriaco ferito, e che da solo non ce la facevo a rimetterlo in piedi, e che anzi provandoci m'era caduto battendo la testa. I quattro alzarono appena gli occhi, senza dire niente.
…
Venne una coppia, scartarono per non pestarlo, e tirarono diritto. Io restavo lì, fermo, e non potevo farci nulla: non muovere l'ubriaco, perché aveva battuto il capo e io sapevo che può essere molto pericoloso. Non chiedere aiuto a qualcuno, perché tutti badavano ai fatti loro. Solo attendere che arrivasse l'ambulanza. Dopo un po' decisi di tornare a casa, anche per raccontarlo ad Anna, ma lei era sempre rabbiosa contro di me, e se ne stava curva al tavolino, a far finta di leggere. Mi stesi sul letto senza spegnere la luce, e sentivo quanto era ostile, Anna, dietro l'armadio, perciò non le dissi nulla. Stavo così, zitto e teso, a occhi aperti. Passò un'ora prima della sirena dell'ambulanza. Il giorno dopo, in tram, cercai nella cronaca e ci lessi appunto che un ubriaco sessantacinquenne, non identificato sinora, era morto per frattura della base cranica, in seguito a una caduta da ritenersi accidentale. Del resto succedeva ogni giorno, mi spiegarono i colleghi in ufficio.
Poche pagine drammatiche emergono da una narrazione che invece immerge il lettore nella seguente grottesca catena di montaggio: le chiamate dei committenti al mattino, il lavoro giornaliero (è necessario scrivere venti cartelle al giorno), gli esattori, i venditori porta a porta e telefonici, lo scaldabagno da spegnere ogni quattro ore, i soldi da inviare a casa, l’amore notturno. Per poi ripartire la mattina successiva con altre chiamate chiamate, altre venti cartelle, altri esattori…
Siamo nel 1962 e, a difesa della propria umanità, il protagonista vagheggia inoltre un mondo diverso, una rivoluzione egualitaria e copulatoria, una regressione a un mondo primigenio, senza nuovi bisogni in cui tutti desiderino solo ciò che la natura offre, vagheggia una fuga dalla città insieme ad Anna… Attimi di tregua notturna, prima che l’assedio del miracolo economico milanese riprenda, con la sua strategia aziendale, la sua produzione giornaliera, i suoi pagamenti, le sue tasse, le sue telefonate di lavoro, inglobando il protagonista nelle sue bolge infernali.
Chiuso il libro, mi domando: io, lettore del 2024, insieme a voi lettori, dentro quali ingranaggi vivo? Quando ho avuto l’ultima tregua? Qual è lo stato di salute della mia umanità?
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