Recensire un disco del Liga è oggi più che mai difficile. Perché Ligabue, innanzitutto, è come l'anguilla marinata: o fa impazzire o fa ribrezzo. Poi perché è appena reduce dal concerto al Campovolo, ovvero il monumento al Passo Più Lungo Della Gamba (o all'Uovo Fuori Dalla Cavagna… fate voi…), evento per il quale sono stati venduti molti più biglietti di quella che era la capienza del posto, e molti segnali -tra tutti un elicottero da riprese che continuava a volare sul pubblico spesso facendo molto più rumore della musica…- lasciavano pensare che tutto fosse costruito malevolmente ad usum dvd, ovviamente d'imminente uscita.

Dunque, è difficile. Allora mi sono imposto d'applicare il metodo che personalmente uso da parecchi anni, cioè cercare di valutare un prodotto solo in quanto prodotto, cercando di non vedere (a volte facendo sforzi giunonici…) tutto quello che ci sta intorno.
Allora cominciamo dalla copertina, dal momento che anche i libri hanno una copertina e anche gli uomini una faccia.
La copertina, e il libretto in generale, sono a mio avviso bellissimi. La scelta di mettere un'infinità di facce comuni è scelta che può sembrar ruffiana, ma che è comunque bella, visto il risultato. È una scelta, oltretutto, schiettamente "provinciale", come lo è registrare l'intero album a Correggio, in casa, altra scelta condivisibile che molti potrebbero permettersi ma che non tutti fanno. È importante il paesaggio che si vede quando si esce a fare una pausa sigaretta, ve lo assicuro, e influisce sul prodotto finito.
Ma veniamo ai contenuti, che sono, sempre e oggettivamente, la cosa più importante.
L'album si apre con una intro rumoristica piacevole. Poi subito ci si accorge di qualche novità. Basta leggere il libretto per avere la conferma della causa del cambio di sound: sono cambiati i chitarristi. Gli ormai storici erano evidentemente stati spremuti come limoni, e più di tanto non potevano dare. Per tutto l'album i suoni di chitarra saranno diversi e interessanti, in grado di creare un clima strano, un po' a metà strada tra gli indimenticabili primi due dischi e la produzione successiva.
Le musiche: oggettivamente le solite. Belle, orecchiabili, coinvolgenti e dense di epicità e liricità, anche se purtroppo da questo punto di vista non c'è veramente nulla di nuovo sotto l'imminente nebbia padana.
I testi: belli, maturi, lontani dalle banalità di Elvis (le imperdonabili Viva e Quella che non sei) e forse più vicini alla voluta provincialità dei primi, con l'aggravante/attenuante dell'età, che porta il Liga a indagare le donne con occhio più saggio (Le Donne Lo Sanno) e meno arrapato di quando le vedeva (giustamente) vestite soltanto del bicchiere, ed a scrivere una Lettera A G. che non può non commuovere chiunque certe strade, suo malgrado, le ha già percorse. Forse quest'ultimo è davvero l'episodio più felice dell'album, da ogni punto di vista.
L'Amore Conta e Sono Qui Per L'Amore sono buone ballate dal tema già evidente dai titoli, ma anche qui trattato senza spocchia né banalità né, soprattutto, occhieggiamenti alle ragazzine (spesso -se non sempre- garanzia di successo quanto di stupidità…).
Episodi scontati ma divertenti il primo singolo Il Giorno Dei Giorni e soprattutto Happy Hour, dove il riff di chitarra porta indietro, piacevolmente ma un po' banalmente, di quindici anni giusti.
Esaminati tutti gli aspetti, applichiamo la miglior regola vinicola e dedichiamoci al retrogusto.
Passata qualche ora dal secondo ascolto integrale, il retrogusto è piacevole, con un profumo di pianura e di nebbia, con l'alibi del rock che non deve mancare mai ad un emiliano ruggente, certo più piacevole per chi certe lande, certe nebbie e certi tortelli bazzica spesso e volentieri, come il sottoscritto.

Il disco è ampiamente promosso, facendo finta di non sapere che ormai anche il Liga è una (onesta) industria, e che il Campovolo è oggettivamente difficilmente perdonabile, anche se chi vi scrive, facendo un momumento personale alla propria incoerenza, correrà a comprare il dvd che raccoglierà l'autocelebrazione del rocker più famoso, e forse più vero, del nostro Povero Paese.

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