Questo fu il disco più venduto in Italia nel 1980 (poi uno dice...) ed è uno dei vertici dell'opera dalliana, compresa in quel periodo che va fra il 1977 (l'anno in cui si stacca definitvamente dalle parole del poeta Roversi) al 1986 (l'anno della culminante tournée americana), ma, a ben vedere, questo disco è compreso nel periodo 1977-1980 che è in assoluto il migliore di Dalla.
Aveva già fatto sfracelli l'anno prima con l'album "Lucio Dalla" e ne fece anche di più con questo, in cui irrobustisce notevolmente il proprio sound grazie all'apporto fondamentale degli allora, non ancora gruppo solista, Stadio. Il ritmo è notevole in molti brani, che spaziano dal funky al pop puro, dal soft-rock al cantautorato più classico.
Dalla nel 1980 è un icona già assoluta della musica italiana, complice il trionfale tour con De Gregori l'anno prima, e tutti lo aspettano al varco. Le aspettative sono alte, ma lui le mantiene tutte, nonostante questo album, che in parte contiene momenti molto malinconici ma anche momenti di aperta solarità, sia percepito da Dalla come il proprio disco della "sofferenza", come ricorda il produttore di quell'album Alessandro Colombini (qui l'intervista datata 2020: https://www.rollingstone.it/musica/interviste-musica/nellalbum-del-1980-dalla-ce-tutta-la-disperazione-di-lucio/539056/).
Forse la maggior disperazione la si può ascoltare in "Cara", che si sarebbe dovuta chiamare "Dialettica dell'immaginario" (certo un titolo azzardato per una canzone), il cui testo è opera del filosofo Stefano Bonaga, concittadino di Dalla. E, almeno nelle intenzioni del cantautore bolognese, più che come una canzone venne pensata come una specie di abbozzo di sceneggiatura, elemento, quello della canzone (un uomo già in là con gli anni che si innamora, gradualmente, di una ragazza più giovane) certamente adatto per un film, Ma poi tant'è, è diventata una canzone e ne parlo in quanto la ritengo la più bella dell'album, quella forse più emozionante in cui la poesia dalliana si fa promotrice di un'idea non scontata di tema poetico alto adattato ad un contesto di canzone da hit parade.
Altrettanto magnifica è "Meri Luis" (che rifarà anni dopo Marco Mengoni, neanche male, va detto) che è un capolavoro di speranza e voglia di vivere. Riprendersi la propria vita lasciando in un angolo tutte quelle costrizioni che ci impediscono, giorno dopo giorno, di viverla al meglio (eloquente, e da brividi, il passaggio: "Meri Luis finalmente ha capito che l'amore è bello e si è lasciata andare"). Nel frullatore storie di dentisti, registi in attesa di una capricciosa diva, di baristi e grandi tette.
Ovviamente vanno segnalate le due composizioni più famose: "Balla balla ballerino" e "Futura". La prima apre l'album ed è un capolavoro soft-rock da dieci e lode, ma certamente la seconda è quella che maggiormente è entrata nell'immaginario collettivo. Va detto che Berlino deve far miracoli, o comunque ne faceva sul finire degli anni '70. David Bowie scrisse "Heroes" vedendo una coppia che si baciava vicino al Muro, Dalla scrisse "Futura" mentre si trovava su un taxi alla fine di un suo concerto. Scritta di notte, dunque canzone notturna nella nascita ma solare e aperta, appunto, al futuro nel contenuto, con quell'intermezzo funkeggiante che diventa "lento lento adesso batte più lento" sul finale, prima dell'esplosione definitiva (viene sostanzialmente mimato, musicalmente, un rapporto sessuale).
Negli ultimi anni è stata, vivaddio, recuperata anche "La sera dei miracoli", con quell'apertura tanto spiazzante quanto meravigliosa nel ritornello, brano che Dalla compose come motivo estivo di una delle tante notti estive romane dell'epoca (una serie di manifestazioni serali, musicali o artistiche in genere, che proponeva il Comune di Roma all'epoca) e che è preceduta dalla misteriosa "Il parco della luna", racconto fuori dal mondo (o dentro, dipende dai punti di vista) di una coppia sui generis e del loro rapporto d'amore. Misteriosa perchè il contesto è lunare, apparentemente appartenente al reale (si cita Ferrara), ma così trasognante che potrebbe essere anche un sogno ad occhi aperti. Brano incalzante, non passato alla storia, ma efficacissimo. E, diciamolo, commovente.
Degli otto pezzi che compongono l'album, l'unico forse un po' meno convincente è "Siamo Dei", riflessione sull'essere umano tanto vulnerabile quanto, appunto, umano e Dio che sta lassù in alto e "Non sarà che a stare sempre nello spazio hai imparato a portar sfiga?", che è anche divertente ma il dialogo uomo-Dio nelle canzoni, onestamente, non mi ha mai fatto impazzire (forse fatta eccezione per "La stazione di Zima" di Roberto Vecchioni), ma tant'è, l'album è comunque un capolavoro, al di là di un brano magari meno azzeccato.
Passata alla storia la copertina di Renzo Chiesa, una delle più famose (o iconiche, come direbbe la Gen Z) della storia della musica.
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