...e Manchester non fu mai così vicina a Canterbury, a dispetto di quanto dica una qualsiasi carta geografica. Questa pagina la comincerei anche così. Ma è meglio andare per gradi.

Ora, qualcuno ricorda per caso la (celebre) copertina di "Real Life" dei Magazine? Ma certo che si - mi rivolgo soprattutto a quelli della mia generazione, collezionisti (e non) di new wave inglese, che di certo saranno ben rappresentati su questo sito. Sappiate, se non lo sapevate già, che quella copertina (quell'opera d'arte non da poco, di fatto) l'ha pensata e disegnata una certa Linda Mulvey meglio conosciuta come LINDER STERLING. Artista punk di Liverpool col debole per il collage e la Pop Art in tutte le sue forme, studia al politecnico di Manchester e si diverte a collezionare ritagli di riviste di moda e giornalini pornografici, dando libero sfogo a ogni suo capriccio con piglio iconoclasta e dissacrante - aggettivi fin troppo teneri, invero. Si da all'oggettistica, costruisce arte praticamente con qualsiasi oggetto di fortuna le capiti tra le mani; si inventa persino una sua "gioielleria mestruale" (eehh...???): ossia, collane e orecchini fatti con pezzi di appendini e garza assorbente macchiata di rosso, per farla sembrare un vero tampone.  L'altra sua valvola di sfogo è il rock, e non ci voleva tanto ad immaginarlo: frequenta il giro di Howard Devoto fin dai tempi dei Buzzcocks (sarà anche la "girlfriend" di Devoto) e per loro crea l'assurda copertina del singolo "Orgasm Addict" (una donna nuda con un ferro da stiro al posto della testa). Poi nel '78 fonda i Ludus; e qui inizia la storia che ci interessa più da vicino.

I Ludus li mette assieme quasi per "gioco" (sia perdonato il gioco di parole), e debuttano - come meglio non si potrebbe - di spalla al Pop Group, sempre nel '78. Sono la "new thing" per eccellenza della Manchester più underground del periodo, mentre la Sterling prende casa a Whalley Range, il quartiere degli artisti, e attira intorno a sé la curiosità di giovani promesse della scena (tra i suoi amici sgomita un certo Steven Patrick Morrissey, che più avanti si farà chiamare solo per cognome). Rimescolamenti interni, avvicendamenti e un'infinita serie di concerti portano nel giro di pochi mesi all'abbandono del chitarrista co-fondatore Arthur Kadmon e del bassista Willie Trotter, e all'ingresso del polistrumentista Ian Devine che prelude al decollo (definitivo, stavolta) del gruppo. In due/tre anni arrivano sul mercato diversi LP ed EP (per la discografia vi rimando altrove), parte del pubblico new wave è disorientata dalla proposta unica della band ma la critica grida al miracolo. E un motivo, un validissimo motivo, c'era eccome.

Ascoltatevi ad esempio "The Seduction", seconda prova sulla lunga distanza (1981) e provate a spiegare con parole vostre quello che sentite. Beh, signori, se questo non è R.I.O poco ci manca; musica a fini "ludici", certo, ma musica facile e "disimpegnata" un corno. Sarà anche un gioco, ma dietro questo gioco si cela una cultura sonora che ha del prodigioso - ai limiti del paradossale. Tanto che nella mia presonale (personalissima, badate bene) classifica dei dischi inglesi di quell'anno, questo "gioco di seduzione" io lo piazzerei tranquillamente al secondo posto, appena dietro "God" (Rip Rig + Panic, chiaro). E molti di quelli che si ostinano a non considerare la new wave terra fertile per grandi chitarristi, ho paura debbano ricredersi, ascoltando Ian Devine. E no, non è finito il tempo delle suite, per quanto strane possano sembrare, se è vero che pezzi come "Unveiled" e "The Escape Artist" vivono di più momenti e di un'imprevedibile follia creatrice che in un qualunque disco di quegli anni non t'aspetteresti mica. E tutto con fare molto wyattiano, dal bizzarro insolito cantato di Linder alla sezione ritmica che inventa, di colpo si ferma, di nuovo riparte in mezzo a singhiozzi e salti di tempo.

Tutt'altro che facile, questo gioco, ma in quanto gioco di seduzione alla fine ti cattura. Inevitabilmente, e senza poter capire COSA in particolare renda questo disco tanto cazzuto. Sarà forse la chitarra che non riesci bene a identificare, un momento è jazz, un altro urla ai limiti del noise, un altro ancora batte il tempo come e più del basso - c'è da perdersi. La sensazione è quella di salire una scala a chiocciola ubriachi, coi gradini a distanza variabile e senza saper bene dove porti - questa benedetta scala. Però il tutto piace, anche quando - come in "The Dynasty" - ci si allontana parecchio dal rock e si sfiora quasi l'avanguardia. E l'estasi è già sopraggiunta, ma per quella vi basterebbe anche l'ascolto dei primi otto minuti.

Capolavoro. Cioè, volevo dire: MIRACOLO.

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