Forse vi ricorderete di Luigi Comencini per il favoloso sceneggiato televisivo di Pinocchio che secondo il sottoscritto rimane ad oggi la miglior trasposizione del libro di Collodi mai realizzata, nonostante qualche perdonabile concessione disneyana. Uscito nell’aprile 1972 lo sceneggiato mostrava la capacità del regista di dirigere un attore bambino e realizzare una storia in cui a dominare fosse l’empatia dello spettatore nei suoi confronti. Be’, non era la prima volta che ciò accadeva: nel 1957 uscì un film diretto da lui, ‘La finestra sul luna park’, un gioiello tardo-neorealista oggi, forse per la presenza di attori quasi sconosciuti se si eccettua Gastone Renzelli nel ruolo del papà Aldo, ricordato nel capolavoro 'Bellissima' di Luchino Visconti, in cui recitava sempre la parte del padre, inspiegabilmente caduto nel dimenticatoio.

Tardo-neorealista non è un aggettivo messo a caso: inevitabile rintracciare nel rapporto conflittuale tra Mario, il bambino protagonista, e il proprio papà che lotterà per guadagnare l’affetto del piccolo, echi dei film di De Sica, dal capolavoro ‘Ladri di biciclette’ sino a spingersi più indietro con ‘I bambini ci guardano’. In effetti Comencini costruisce una pellicola dotata di tutti i crismi (dalla trama, all’ambientazione ad ancora la classe sociale di appartenenza dei protagonisti) da essere perfettamente ascrivibile nel solco tracciato dal nostro luminare del Neorealismo, compresa la presenza in fase di sceneggiatura della penna di Suso Cecchi D'Amico. E insomma, l’unico elemento di distinguo parrebbe essere l’anno di ambientazione: è il 1957 e nonostante la configurata situazione di povertà dei due protagonisti si profilano all’orizzonte avvisaglie di benessere: mentre in un Ladri di biciclette il padre lavoratore impazziva per tutta la città nella ricerca del mezzo necessario per portare a termine un lavoretto alla fin dei conti umile atto a guadagnare il piatto caldo della serata, il padre del nostro Mario ha un lavoro niente male tra le mani assai più redditizio. Unico sacrificio? Deve emigrare in Africa lasciando soli la moglie e il figlioletto. Ed è proprio su questo conflitto che si snoda il cuore drammaturgico del film: cosa è meglio per le persone care della famiglia, che abbiano più comodità (addirittura viene citato quel “lusso” che era per quegli anni la televisione) a costo di una penuria d’affetto? Tale dilemma diventa ancora più greve quando a causa di un incidente stradale la presenza femminile viene a mancare e Mario rischia di rimanere solo al mondo ed essere rinchiuso in un collegio.

Ma gli occhi di Comencini sono benigni verso il suo figlioletto cinematografico: e così grazie all’escamotage di un lungo flashback nel momento di risoluzione finale, ci mostra la sopita sofferenza dettata dalla solitudine che madre e figlio avevano provato durante l’assenza del marito, come Mario stesso non avesse mai potuto conoscere il padre, come serene giornate al mare in compagnia del tuttofare dei nonni di Mario, Righetto, qui nelle vesti di genitore e marito putativo avessero ben più valore dei beni materiali e delle due righe stringate di lettere che venivano spedite da laggiù. Insomma il messaggio, la morale del film è chiara, e il padre riesce ad aprire gli occhi appena in tempo, la notte prima della sua ipotetica partenza. Rimarrà lui insieme al figlio, mentre il sempre dignitoso e onesto Righetto che mai s’era azzardato a corrompere quel buon nome di famiglia nonostante la palese affezione sviluppatasi nei loro riguardi, decide di farsi da parte permettendo così che bambino e genitore irrobustiscano il loro rapporto.

Ed è proprio qui che scatta la seconda differenza coi film di De Sica il quale ha da sempre prediletto un finale e una chiave di lettura assai più pessimistici: il padre di Ladri non riesce a ritrovare la bicicletta e scampa miracolosamente alla prigione per pura pietà, il bambino de ‘I bambini ci guardano’ passa attraverso l’abbandono definitivo della madre e il suicidio del padre e viene messo in collegio; qua certo, non si sa nulla dell’avvenire che si prefigura incerto (il padre d’altronde rinuncia a una ghiotta occasione lavorativa per un più precario e meno redditizio “vivere alla giornata” attraverso impieghi manuali e altri lavoretti e indispensabile diventa l’aiuto dei retrogradi nonni, osteggiati fino a poco prima), ma non ha più importanza, giacché si è insieme. Emblematica l’ultima inquadratura dei due a cavallo di un’attrazione da luna park, il trionfo di un affetto destinato a crescere e, in vista delle avversità future, fonte da cui trarre forza e nutrimento.

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