Tanto va la gatta al lardo…” o anche “Moglie e buoi…”.

Ognuno ha i proverbi che si merita.

E “Come casca Wichita, così cascano le cascate di Wichita” è un proverbio yankee. Che francamente non è da appuntare sul taccuino tra le cose da ricordare per la vita.

Da comperare assolutamente, sentire (possibilmente spesso) e custodire gelosamente nella propria discoteca, invece, annoveriamo il “Wichita” di Pat Metheny e Lyle Mays, inciso per la ECM ad Oslo nel 1980 in compagnia soltanto di Nanà Vasconcelos alle percussioni/voce ma concepito/composto in duo da Pat (chitarre e basso) e Lyle (tastiere varie). Lyle Mays è un musicista mai troppo lodato, valido alter-ego e contrappunto artistico ed umano di Metheny: mentre Pat è nato ridendo (chiedete all’ostetrica!), non fuma, non beve, corre, gli va tutto dritto, ama (e quindi indossa) quelle terribili magliette a strisce ed è in fin dei conti un “true achiever”, un rispettatissimo musicista a 360 gradi, Lyle per contro fuma, beve (moderatamente: non è certo Bukowski!) è un pigro della madonna e quanto ad esercizio fisico non “muove una paglia”; ha inoltre periodi di incostanza umorale e scazzo notevoli col Pat, come in qualsiasi coppia artistica di lungo termine che si rispetti. E ci mancherebbe che non fosse così: pensate che noia.

L’incontro (avvenuto a Wichita nel ’76) di due personalità così diverse, forti e talentuose ha prodotto progressivamente quelle che sono tra le più belle pagine della musica contemporanea, sin dalla prima costituzione della garage band denominata Pat Metheny Group; avvenuta dopo una collaborazione di Pat Metheny col preesistente “Lyle Mays trio” per qualche tempo. Il PMG è l’alveo entro cui i due sviluppano la loro musica; un porto sicuro, un molo da cui staccarsi solo di tanto in tanto: per il pigro Lyle semplicemente per i suoi bellissimi dischi da titolare. Per il vulcanico Pat invece sia per progetti radicali (Zero Tolerance, Song X), che di cifra più intimista (Missouri Sky, One quiet night, Metheny-Hall etc. ) o jazzistici in senso più canonico (circa… un miliardo) ed a cui poi ritornare, arricchiti e pronti alla nuova prossima avventura.

Questo specifico capitolo costituisce un po’ il precursore di lavori maggiormente frammentati e di stampo più popolare quali "Still Life Talking" o "Letter From Home" etc., ma anche il padre diretto di "Secret Story", suite incisa con dispiego di mezzi e tempo inusuali anche per… Madonna o per gli steely Dan! E comunque non denuncia alcuna debolezza o difetto che dir si voglia tipico dei progetti innovativi allo stadio iniziale. Anche perché all’epoca i nostri erano già musicisti navigati, avevano già inciso per ECM diversi dischi col PMG e ben digerito quantità enormi sia di solido jazz che di sano rock nordico-mitteleuropeo, con chiari riferimenti sinfonici; tutta roba che si riflette abbondantemente nell’opera del PMG.

Non è musica per tutti. Ed è comunque musica per tutti i cuori assetati di bellezza oggettiva e di musica intelligente. Dopo l’ascolto di questo disco sei costretto a considerare il PMG. Senza dubbio alcuno. Metheny & Mays sono un po’ come i fratelli Taviani o i grandi onirici del cinema, tipo Bunuel, Fellini, Oliver Stone. O Maurizio Cattelan e il suo immenso coraggio da artista globale mondiale amato od odiato. Ma con cui alla fine tutti devono fare i conti perché stabilisce una pietra di paragone. La musica che il PMG produce è infatti in bilico perfetto tra rock, jazz, latin e la tradizione popolare americana o mondiale (vedi i canti cambogiani inseriti in Secret Story!), costituendo però di fatto un nuovo genere a se di bellezza inclassificabile. In questo lavoro troviamo innanzitutto la prima traccia di venti minuti

1) “As falls Wichita so falls Wichita falls”. Il pezzo parte con un tema, esposto da strumenti orientaleggianti e percussioni “campanarie” di Nanà, che si riproporrà nel tempo ed un giro di basso a supporto ben presente e pulito. Il viaggio comincia e prosegue vario ed allucinato ma molto musicale per tutta la durata. Le percussioni giocano un bel ruolo di primo piano, per colorare questa musica che non sarebbe sbagliato definire ambient se quest’aggettivo non fosse stato sempre usato in senso un po’ denigratorio. Organo simil Farfisa, musica rarefatta ed improvvisi crescendo orchestrali richiamano alla mente ora i migliori Pink Floyd ora “In a gadda da vida” degli Iron Butterfly ed il loro primitivo giardino dell’Eden, con una spruzzata di Ray Manzarek (Doors). Strali celesti corrono e vanno a perdersi mentre la melodia di fondo muta lenta. Un capolavoro da non poter perdere. I suoni sintetizzati qui volano e continueranno comunque a caratterizzare il PMG sound per decenni, malgrado la tecnologia, all’epoca ancora da perfezionare. Pat si produce anche nei soli di basso fretless con rimarchevoli risultati. Dovendo rendere un’idea per immagini della musica epica che troviamo in questo brano, si potrebbe fare un parallelismo con gli scenari senza dialoghi di 2001 Odissea nello spazio, sia gli iniziali che quelli alla fine del film.
2) “Ozark” risulta più in linea col resto della produzione PMG. Tempo medio veloce e accordi maggiori a mani piene, con chitarre aperte e base ritmica molto semplice richiamano la tradizione folk americana. Strumenti acustici e voglia di ballare. C’è già dentro tutto Lyle Mays. Interi campi di Mays, direi!
3) “Sept 15” è un pezzo struggente, dedicato a Bill Evans e reso con semplicità: chitarra acustica ed organo a parlare al tuo cuore senza nessun’altro in mezzo. Alla fine, un piano acustico come solo alle tre di notte dopo che tutti sono a dormire.
4) “It’ s for you” è un tipico pezzo melodico PMG in cui compare appena il cantato che poi si svilupperà meglio nei prossimi dischi. Si ascolta molto bene, dopo metà, il Roland Guitar Synth che caratterizza tutta la produzione PMG ed il suono personale di Metheny. Chitarra ottima abbinata un synth piuttosto spartano, con diversi problemi di tracciabilità delle note; bestia da maneggiare con cura e proprio per questo usata con grande maestria da Pat, che ne cava fuori frasi di bellezza cosmica.
5) In “Estupenda graca” Nanà ci offre un canto che viene successivamente integrato da chitarra e rumori “agresti” di fondo. L’ influenza di Milton Nascimento sui giovani, all’epoca di questa incisione, è evidente e questo gioiellino chiude un disco di breve durata per gli standards attuali (poco più di quaranta minuti) ma che non può mancare nel vostro cuore.

Una cosetta simpatica che ho trovato in rete: http://www.pagine70.com/vmnews/wmview.php?ArtID=508

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