Nel microfono la nenia di 500 lontane galassie pulsa all’unisono.

E’ armonica come un tremulo coro di cicale, inzuppata com’è nella patina sciropposa dello scirocco che soffia nelle notti estive.

Il canto è il là fuori, è il freddo cielo che contiene il tutto, è il cosmo che infagotta il mondo.

Lo spleen viene vomitato in un singolo sussurro, un mormorare sommesso, inudibile come il frusciare di due corpi celesti che si accarezzano assaporando una possibile collisione.

Un nome: Wayne Rogers.

La chitarra è il là dentro, la pulsione, il rogo avvampante che muove i gesti del pianeta.

L’amplificatore è la montagna dal profilo tonante che rigurgita il fuoco. Traccia così il ponte tra la frescura esterna, il cosmo illimitato e frigido del canto, e l’incessante ardore interno che vibra sulle corde come un bacio.

Stesso nome: Wayne Rogers. Uno dei chitarristi più geniali del secolo scorso. Orrendamente dimenticato.

Tra i sospiri i suoi assoli, storti e distorti, scorrono come lacrime, lente e incandescenti, a riempire i solchi vuoti di reminescenze perdute.

La chitarra oscilla e il suo incurvarsi è gentile come i flussi inarrestabili del magma subcosciente; il suo brillio, l’ultimo fremito luccicante di un’agonizzante stella nell’ora del suo ultimo tramonto.

Il bisbiglio notturno del cantante si congiunge finalmente al ciclopico polmone dell’amplificatore, che si contrae ritmicamente, a fuoco e fuori fuoco: è la vulcanica montagna a testa in giù, fluttuante tra le nebbie del tempo.

Una volta anche essa era fuoco, e non lo ha certo dimenticato. Ora ne è la scrupolosa guardiana. I filamenti delle sue radici, avvinti nel cielo, sono mani membranose e filiformi tese ad afferrare i batuffoli leggiadri delle nuvole: essi scorrono indisturbati, ignari di tanto frenetico desiderare.

Le vette del lassù fluttuano tra le nebbie immobili del tempo, solcando gli specchi d’acqua del quaggiù, come le dita di un bambino intinte pigramente dall’alto di una barca in movimento.

Come cigni aggraziati esse zigzagano pensierose, sfiorando l’universo marino senza indovinare le meraviglie cangianti che fluttuano silenziose sotto la sua superficie.

Sotto le sue mani, si gonfiano e si sgonfiano enormi megattere, e anche loro espirano, ma in spruzzi, la tristezza: la bevono e poi la sputano, senza smettere di desiderarne altra…

…Ciclicamente, divampa il rombo e l’eruzione si intensifica in un raga cosmico, mentre la batteria di Damon (ex Galaxie 500) scartabella velocemente le note. Ed è allora che la piramide deflagra nei getti bollenti di “Passing Words”: la chitarra deraglia impazzita… e, mentre sbanda, le sue mille lingue di lava si lanciano su per i tornanti di alberi in una folle corsa, fino a incontrare il gelo dell’oceano celeste. A contatto con il freddo, la fiamma sfrigola, e il suo suono muta in un doloroso lamento, un sinuoso gorgogliare di sitar indiano.

Controvoglia, Wayne trattiene singole note per lunghi attimi; poi, boccheggiante, ogni corda dello strumento esplode in potenti scosse elettriche. Scandagliano il freddo esterno, mentre mille storie d’amore pulsano sotto la sua crosta di fuoco, destinate a tacere il loro segreto. La pietra e il metallo coagulano come sangue, e cercano la forma in cui solidificarsi per rimanere immobili e mute in eterno.

La chitarra ora è un animale morente. Il basso di Naomi Yang (ex Galaxie 500 anche lei) si gonfia e si cheta come una vela tesa dal vento; la chitarra starnazza, per poi stramazzare in una coda cacofonica.

E’ la fine ed è l’inizio.

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