Vedevo e sentivo, ero vivo. Li potevo capire e li guardavo mentre mi guardavano. Ero in sala rianimazione allacciato alla vita tramite tubi, fili, sonde. La stabilizzazione delle funzioni vitali procedeva a fasi alterne, un paio di volte stavano per perdermi, ma mi avevano sempre riacciuffato. La respirazione c'era, la circolazione del sangue così e così, la coscienza era più che vigile. Mi avevano salvato nonostante avessi un buco nel cuore e poche gocce di liquido rosso qua e là nelle vene. Ad ogni respiro il sangue mi gloglottava in gola alla maniera dei fringuelli o dei pettirossi, quando sono in amore. Per loro era un segnale che stavo combattendo per tornare alla vita, a quella vita che mi aveva dato solo sofferenza, diciamolo pure, quel cazzo di vita alla quale non sarei voluto tornare mai. Il personale infermieristico era altamente specializzato, s'affaccendavano attorno a me come le damigelle del milleesettecento quando si prendevano cura delle regine, mi sentivo coccolato ed ero contento quando li vedevo arrivare. Ero in buone mani. Mi buttavano sotto la carne sangue buono, non quello pieno di alcool e schifezze varie che hanno in corpo le anime perse. Come ero stato io. Mi ripulivano ben bene. Ero in uno stato vegetativo e, non so perché, sentivo che stavo raggiungendo una condizione di coscienza nuovo, come quella che hanno le piante, stavo prendendo le distanze dai nonsense umani, essere il migliore, il più intelligente, il più buono, il più cattivo. Mi stavo avvicinando all'ordine originario della natura. Ma, tuttavia, la mia parte umana chiedeva di Isabella. Dov'era la mia piccola dolce luna che un giorno di inizio estate si era introdotta nella mia vita? Scombussolandola, facendola diventare un'esistenza vera, con litigi, coccole, incomprensioni, sguardi, e tutto quanto serve a fare di una vita, qualcosa che ti appaga. Così che, quando ti svegli la mattina non vieni preso da un senso di sgomento, perché le ore che verranno potrai pensare a lei e, a modo tuo sarai felice. La mia personale felicità che somigliava solo vagamente a quella degli altri, la mia, poteva anche consistere nello stare tutto il giorno a letto pensando alle sue ciglia che sbattevano, ai suoi capelli neri, neri e lisci, ma a volte ricci quando li arricciolava. Capelli neri di raion, che fluttuavano al vento salmastro quando camminavamo sulla spiaggia. Tirrenia non era più come nei miei ricordi di ragazzino quando apprezzavo il fascino d'ogni sfumatura delle acque. Il riverbero del calore e dei fasci di luce che irradiando verso il cielo, alteravano il paesaggio in lontananza, il freddo azzurro delle profondità nel mattino. Ormai c'erano solo onde di maleodorante schiuma bianca e sporcizia che proveniva dagli scarichi abusivi. Eppure, tutto mi pareva bellissimo, ero vivo ed ero contento d'esserlo. Ma non ne avevo coscienza, non ti rendi conto del bello o della felicità, quando vivi nell'eccesso. Stare in una perenne condizione di ottundimento dei sensi, non permette di riconoscere pienamente i sentimenti degli altri e ancor meno, esprimere i propri. Conosci bene solo le strade che portano da un bar all'altro. Per fare? Comportarti come un idiota senza averne cognizione. Questo è il dramma. Il giorno dopo affiorano i ricordi che si portano dietro un'infinità di rimorsi. E ti senti uno schifo. Eppure lo sai che per gustare la vita, il solo modo è nella consapevolezza, consapevolezza di quello che sei e di quello che ti circonda, solo in piena coscienza si può godere e gioire. Isabella aveva cambiato le carte in tavola e il mio fragile equilibrio si era perso, con lei era arrivato qualcosa che non conoscevo, l'avrei capito troppo tardi. Benché non avessimo neanche fatto l'amore, quella folle e meravigliosa creatura aveva cambiato tutto nella mia vita. Gli sciocchi non possono capirlo, la felicità non è data da cose effimere come la bellezza, il potere o la ricchezza. È un insieme di emozioni e stati d'animo, è un senso di completezza e soddisfazione, è uno stato di grazia percepito da ogni singola cellula del corpo. Non serve definirla, basta sapere che ha bisogno di tenerezza, sorrisi, lacrime, abbracci. Dove sei Isabella? Pensavo. Non c'era. Ma non fui preso dallo sgomento perché potevo inventarla, anzi, non sarebbe stata un'invenzione perché, tutti lo sanno, il sogno è un diverso aspetto della realtà, che tra la vita e la morte c'è un sottile spazio per concepire un altro stato di cose. Bastava chiudere gli occhi e ce l'avevo lì. Vera. Viva come nella cosiddetta vita reale, quella vita alla quale non appartenevo più, e mai più avrei voluto farne ancora parte. Ero un mazzo di rose disteso sul letto di un ospedale, rose con radici, spine, petali, sentimenti e fantasia. Dipinsi il mondo come l'avevo sempre sognato, coi colori, migliorai un aurora boreale per andarci con Isabella. Scalzi, tra i ghiacci del polo, ballammo languidamente illuminati dalle luci al neon dei raggi di sole filtrati dai cristalli del ghiaccio. Eravamo pronti a vivere l'amore vero, quello che nessuno conosce e nessuno sa cos'è, che non chiede spiegazioni perchè si assapora, che ti stampa un sorriso nel cuore, ti fa volare e ti fa credere che la vita è bella, e... tante cose ancora, tutte irragionevoli e incoerenti.