Stato vegetale.
Vedevo e sentivo, ero vivo. Li potevo capire e li guardavo mentre mi guardavano. Ero in sala rianimazione allacciato alla vita tramite tubi, fili, sonde. La stabilizzazione delle funzioni vitali procedeva a fasi alterne, un paio di volte stavano per perdermi, ma mi avevano sempre riacciuffato. La respirazione c'era, la circolazione del sangue così e così, la coscienza era più che vigile. Mi avevano salvato nonostante avessi un buco nel cuore e poche gocce di liquido rosso qua e là nelle vene. Ad ogni respiro il sangue mi gloglottava in gola alla maniera dei pettirossi, quando sono in amore. Per loro era un segnale che stavo combattendo per tornare alla vita, a quella vita che mi aveva dato solo sofferenza, diciamolo pure, quel cazzo di vita alla quale non sarei voluto tornare mai. Il personale infermieristico era altamente specializzato, s'affaccendavano attorno a me come le damigelle del milleesettecento quando si prendevano cura delle regine. Ma nessuna frivolezza settecentesca. Le dita dei medici si muovevano veloci e sicure. Ero in buone mani. Che siano benedetti. Mi buttavano sotto la carne sangue buono, non quello pieno di alcool e schifezze varie che hanno in corpo le anime perse. Come ero stato io. Mi ripulivano ben bene.
Ero in uno stato vegetativo e, non so perché, sentivo che stavo raggiungendo un livello di coscienza nuovo. Come quella che hanno le piante. Stavo prendendo le distanze dai nonsense umani. Essere il migliore, il più buono, il più cattivo. Da queste insensatezze. Mi avvicinavo alla natura corretta delle cose. Ma, tuttavia, la mia parte umana chiedeva di Isabella. Dov'era la mia piccola dolce luna che un giorno di inizio estate si era introdotta nella mia vita? Scombussolandola, facendola diventare un'esistenza vera, con litigi, coccole, incomprensioni, sguardi. Unitamente a tutto il resto che fa di una vita, qualcosa che ti appaga. Così che, quando ti svegli la mattina, non vieni preso da un senso di sgomento. E le ore che verranno potrai pensare a lei. E a modo tuo sarai felice. La mia personale felicità che somigliava solo vagamente a quella degli altri. La mia, poteva anche consistere nello stare tutto il giorno a letto pensando alle sue ciglia che sbattevano, ai suoi capelli neri, neri e lisci, ma a volte ricci quando li arricciolava. Adoravo girarmi tra le coperte e pensare a quei capelli neri. Erano capelli di rayon e fluttuavano al vento salmastro quando camminavamo sulla spiaggia. Tirrenia non era più come nei miei ricordi di ragazzino, quando apprezzavo il fascino d'ogni sfumatura delle acque. Quando rimanevo a bocca aperta, guardando il paesaggio che si scomponeva al riverbero del calore che saliva verso il cielo. Quando cercavo il brivido che dava l'acqua fredda e chiara nel mattino. Ormai c'erano solo onde di maleodorante schiuma bianca e ogni sorta di sporcizia liquefatta che proveniva dagli scarichi abusivi.
Eppure, tutto mi pareva bellissimo, ero vivo ed ero contento d'esserlo. Ma non ne avevo coscienza, non ti rendi conto del bello o del piacere, se vivi nell'eccesso. Stare in perenne condizione di ottundimento dei sensi, non permette di riconoscere i sentimenti degli altri. Ancor meno, esprimere i propri. Conosci bene solo le strade che portano da un bar all'altro. Per fare? Comportarti come un idiota senza averne cognizione. Questo è il dramma. Il giorno dopo affiorano i ricordi che si portano dietro un'infinità di rimorsi. Ti senti una merda e non vedi la luce che ti può dirigere. Eppure lo sai che per gustare la vita, il solo modo è nella consapevolezza. Consapevolezza di quello che sei e di quello che ti circonda. Solo in piena coscienza si può godere e gioire. Isabella aveva cambiato le carte in tavola e il mio fragile equilibrio si era perso, con lei era arrivato qualcosa che non conoscevo. L'avrei capito troppo tardi. Benché non avessimo neanche fatto l'amore, quella folle e meravigliosa creatura aveva cambiato tutto nella mia vita. Gli sciocchi non possono capirlo, la felicità non è data da cose superficiali come il lusso, la fama o il denaro. È semplicità, completezza, soddisfazione. È uno stato di grazia percepito da ogni singola cellula del corpo. Non serve definirla. Basta sapere che ha bisogno di tenerezze, sorrisi, lacrime, abbracci.
Dove sei Isabella? Pensavo. Non c'era. Ma non fui preso dallo sgomento perché potevo inventarla, anzi, non sarebbe stata un'invenzione. Tutti lo sanno, il sogno è un diverso aspetto della realtà, che tra la vita e la morte c'è un sottile spazio per concepire un altro stato di cose. Bastava chiudere gli occhi e ce l'avevo, lì. Autentica. Viva come nella cosiddetta vita reale, quella vita alla quale non appartenevo più, e mai più avrei voluto farne parte. Sarei stato un pazzo, perché la dignità che avevo acquisito da quando ero in ospedale, mai mi era stata riconosciuta, prima. Tutti mi amavano e sentivo solo commenti lusinghieri. Niente polemiche, gare, giudizi. Stavo disteso sul letto come una pianticella priva di fiori e di radici. Ma con i sentimenti. E la mente era sveglia più che mai. Il giorno prima mi ero sparato un proiettile nel cuore, e poche ore dopo, ero a un passo dal cielo.
Con l'inchiostro della fantasia dipinsi il mondo come l'avevo sempre sognato. Cambiai in meglio un aurora boreale e in un attimo ero lì, con lei, tra i ghiacci del polo. Abbracciati languidamente, ballammo scalzi, illuminati dalle luci al neon dei raggi di sole filtrati dai cristalli. Eravamo pronti a vivere l'amore vero, quello che nessuno comprende, che non chiede spiegazioni perché si assapora. Quello che ti stampa un sorriso nel cuore, che ti fa volare e ti fa credere che la vita è bella, e, tante, tante cose ancora. Tutte irragionevoli e incoerenti.